di GIAMPIETRO DE ANGELIS –
É una bella giornata di sole e luce, con una gradevole temperatura che rende più piacevole attraversare a piedi un parco di pini secolari, maestosi ed altissimi, dalle forme inconsuete ed articolate. Un parco che in realtà è piccolo, ma così denso di vitalità, così carico di energia, che vi passeggio ogni volta che posso. Nutre le mie ispirazioni e lascia spazio a nuove osservazioni. Camminando, noto che sotto uno di quei pini, dalle radici che marcano il terreno, siede un uomo anziano, dalla postura rilassata e beata, mentre fuma un sigaro toscano. Anche lui mi vede e senza smettere di fumare, aspettando che mi avvicini, mi dice: «Giovanotto, questo è il mio segreto». Con un dito indica il sigaro ed inizia un bel racconto. Fin da giovane aveva preso l’abitudine, sacra ed irrinunciabile, di fumarne almeno uno al giorno, seguendo un rituale, quello di sedersi tranquillo ed appartato, godendo appieno ogni boccata, a tu per tu con se stesso, pacificato con ogni cosa e nel pieno rispetto della natura.
L’istinto è di abbracciarlo ma mi limito ad un largo sorriso e lo saluto felice dell’incontro.
«E sì» penso tra me «Il segreto è lasciare a se stessi uno spazio vitale, distaccati da tutto». Il sigaro, ovviamente, è solo un mezzo, un pretesto, un elemento rituale da sciamano metropolitano.
Tutto questo non è l’oggi, ma una mattina di Maggio del 1992.
Nell’oggi, qualcosa di diverso. Sto parcheggiando e si avvicina un ragazzo, zaino in spalla, dall’aspetto dimesso, mi chiede una moneta. Non inventa particolari storie, semplicemente, con tono gentile ma stanco, fa quella richiesta.
Gli dò due euro, guardandolo perplesso e prevenuto. Lui comprende la mia espressione e mostrandomi lo zaino logoro con il sacco a pelo, mi saluta con un «Mi scusi ancora signore». Prosegue il suo non lieto percorso.
Non posso evitarmi di ripensare e riflettere. Quel volto gentile e segnato si imprime nella coscienza. Mi chiedo se non fosse stato giusto parlarci un po’ e vedere se potevo essere utile, oltre la moneta.
Cerco di capire se c’è qualcosa che unisce i due ricordi, così distanti tra loro, così opposti.
Ciò che è evidente è il contrasto, nell’essere facce della stessa medaglia. Ventiquattro anni fa, quell’uomo anziano, nel parco di una casa di riposo, sapeva che i giochi erano fatti, che non aveva più nulla da programmare o investire. Si godeva gli ultimi scampoli di una vita lunga, probabilmente modesta ma tranquilla, senza più particolari aspettative. Ogni boccata ed ogni nuvola di fumo, erano un inno al tempo che restava, nell’ombra dei pini secolari.
Ventiquattro anni dopo, un ragazzo senza gioia e senza apparente speranza, girovaga per vie che non conosce. Dovrebbe avere davanti a sé un mondo intero di prospettive che non vede. Ha potenzialità che restano inespresse, un talento che nessuno conoscerà ed uno sguardo senza più espressione. Un passato da dimenticare, un futuro che non c’è e un presente fatto di elemosine tra indifferenti e indaffarati.
Due facce di una medaglia che si chiama umanità. La storia millenaria dell’Uomo è infinitamente ricca di arte, filosofia, esplorazioni, scienza, scoperte, invenzioni. Sappiamo perlustrare i meandri nascosti dell’inconscio, sappiamo esprimere sfumature delicatissime, sappiamo costruire tecnologie impensabili fino al tempo dell’anziano signore. Eppure, la cosa più semplice, la più ovvia, la più giusta, quella di accogliere un ragazzo senza felicità, quella non la sappiamo fare.