Per essere felici occorre saper fare i castelli di sabbia

Castelli di sabbia

di GIAMPIETRO DE ANGELIS –

Passeggio spesso in riva al mare, soprattutto quando non è estate e il sole te lo godi senza schiamazzi. Tutt’al più incontro qualche signora con il cane o un’amica. Oppure, come oggi, una mamma con i suoi figli.
Vedere un bambino che con meticolosità abbozza un castello mentre la sorellina controlla perplessa e stupita e la madre riesce a guardarli senza distrarsi sul telefonino è quasi un avvenimento raro per cui, non troppo distante, mi siedo sul lato di un pattino per vedere come svilupperà.

Mentre osservo mi torna in mente un episodio che è un piccolo cult della memoria.  Un uomo distinto, alto, maestoso nella sua tonaca bianca da frate domenicano è un docente di metafisica greca. Al suo attivo, diversi libri di approfondimento sul pensiero di Plotino. Ed è anche emotivamente legato alle proprie radici contadine e mantiene l’incanto del fanciullo. Quando mi dice “andiamo in spiaggia” so come va a finire. Ma non potevo saperlo la prima volta. Me lo rivedo, come in un filmato amatoriale che non stanca: lo accompagno sul lungomare e mi chiede di attendere. Lo vedo allontanarsi verso il bagnasciuga. Si china. La veste riflette il sole mentre intorno alcune giovani coppie passeggiano, si baciano, parlano e vanno oltre.

Non vedo bene cosa fa il “padre”. Ogni tanto si alza, si sposta di qualche metro e si riabbassa. Dopo un po’ torna verso me, le braccia protese, i pugni chiusi e un largo sorriso che si diffonde ancor di più quando apre le mani mostrandomi le conchiglie che ha raccolto. Conchiglie scelte una ad una, selezionate non so bene con quale logica. Quel sorriso e quella gioia semplice non posso dimenticarli, conoscendo la statura culturale dell’uomo, la sua capacità dialettica, il suo spessore, la sua rigorosa disciplina.

Mentre ripenso a Padre Ruffini, non mi lascio sfuggire la scena familiare e il dialogo tra loro. La bimba sembra davvero incredula nel vedere come gli infiniti granelli si possono trasformare in una forma conosciuta. Calpesta la sabbia, la fa scivolare tra le dita e poi guarda il piccolo castello  e si rivolge alla mamma che l’abbraccia, la fa sedere sulle sue gambe e le dice: «Lauretta, quando cammini sulla sabbia vedi che restano le impronte. La sabbia non ha una sua forma, si adatta al tuo piede e si adatta alla paletta di tuo fratello. Si adatta ad ogni recipiente e può assumere tutte le forme proprio perché è fatta così, di tanti, tantissimi piccoli granellini di roccia».

Laura guarda il fratello che prende l’acqua. Vede trasformare la massa informe e sfuggente in qualcosa di compatto, in un’altra cosa. E tra sé e sé ripete: «Che bello che una cosa può diventare un’altra».
La piccola Laura, senza accorgersi di me, è come se mi avesse parlato perché quel dire “può diventare un’altra” agisce come un catalizzatore di intuizioni, riconducendomi dentro ai miei dejà vu. E comprendo quel religioso, esigente come insegnante ma gioioso quando riconduce il qui ed ora al fanciullo che non muore, che bussa sempre forte in noi e che chiede soltanto di esistere e di essere ascoltato ancora.

Mi alzo, un ultimo sguardo a mamma e figlioli ed inizio a correre. Così, come fossi un “altro”. Non l’ho pensato né deciso. Mi ritrovo a correre, senza un perché, senza una ragione. E più corro, più mi accorgo che rido, i polmoni si ampliano, il sole è più luminoso, il mare più intenso, la sabbia più morbida. Ansimante, dopo un po’ rallento e guardo tutt’intorno con una soddisfazione che non ricordavo. Controllo di non aver perso nulla e mi avvio calmo verso l’auto. Per essere felici occorre saper fare i castelli di sabbia.