di MASSIMO CONSORTI –
Quante volte lo abbiamo cantato con gli occhi lucidi e la mano sul cuore! Quante volte abbiamo gioito per una vittoria sportiva importante o per caricarci prima di una sfida! “Fratelli d’Italia” però, sembrava buono solo per lo sport, per l’ennesima medaglia d’oro di Federica Pellegrini, per la vittoria della Ferrari ai Gran Premi di F1, per il primo posto conquistato alle Olimpiadi dai tiratori a volo o dagli arceri (che poi, passate le Olimpiadi, non se li filava più nessuno era considerato un aspetto marginale). Ebbene il nostro Inno era un inno provvisorio, altro che precari stabili (contraddizione in termini tutta italiana) della Pubblica Amministrazione, altro che insegnanti in pensione solo con le supplenze e dopo quarant’anni, l’inno di Mameli è stato precario per più di settant’anni, un record mondiale, la fotografia esatta di un Paese che ha fatto della provvisorietà la sua ragione di esistere, il suo mood esistenziale. Perché non era considerato l’inno nazionale? Non era stato inserito nella Costituzione come tale, come l’inno ufficiale della Repubblica Italiana. Così, dopo quasi tre quarti di secolo, la Commissione Affari Costituzionali del Senato ha approvato in sede legislativa un disegno di legge di un solo articolo che era già stato approvato dalla Camera dei Deputati. Eccolo: “La Repubblica riconosce il testo del «Canto degli italiani» di Goffredo Mameli e lo spartito musicale originale di Michele Novaro quale proprio inno nazionale”. E ci voleva tanto? Se in Italia le leggi fossero composte di un solo articolo, vivremmo in un Paese semplice, e invece siamo ancora pervasi da una sorta di schizofrenia della complessità che ci rende una nazione cervellotica al limite del burocratismo psicanalistico. Però, tanto per non smentirci, siamo riusciti a modificarne il titolo. Non si chiamerà più “Fratelli d’Italia” o l’”Inno di Mameli”, ma “Canto degli italiani”. A bé sì bé, avevo visto un re.