di MASSIMO CONSORTI –
Appena viste le prime foto dell’albero di Natale di Roma (quello ufficiale), abbiamo lanciato sul nostro account twitter l’hastag #iostoconspelacchio. Quell’abete rosso proveniente direttamente dalla Val di Fiemme, ci aveva intenerito, perfino commosso, poverino. Sembrava più una scopa che un albero di Natale, ma si sa, la crisi.
Avevamo appena visto le immagini dell’immenso abete di 28 metri di Piazza San Pietro, donato dalla arcidiocesi di Elk (Polonia), ed eravamo rimasti incantati dal suo splendore e dalla sua rigogliosità. Poi avevamo fatto un salto virtuale in America per vedere com’erano quelli sistemati a Times Square e al Rockfeller Center, manco a dirlo, due capolavori della natura.
Spelacchio invece brillava della sua pochezza. Magro come un chiodo, con gli aghi già secchi e pendenti e neppure un accenno alla floridezza degli altri, Spelacchio sembrava un clochard in crisi di abbandono, un miraggio fallace nel deserto, la sublimazione del concetto antiestetico di anoressia.
Eppure, questa pochezza, tifando da sempre per gli ultimi e gli sfigati e amando terribilmente Paperino anteposto infantilmente a Topolino, ci aveva fatto innamorare.
Diciamolo, sono tutti capaci di dipingere o fotografare un giovane virgulto o una diciottenne in tiro, il difficile resta coglierne il senso e lo sguardo, e forse è per questo che abbiamo sempre preferito Sebastião Salgado a David Hamilton, la vita contro il sogno.
Spelacchio ha rappresentato, nel nostro personale immaginario, lo sfigato che per una volta riesce ad avere il suo quarto d’ora di celebrità. E di tutto questo siamo stati felicissimi fino al momento ferale in cui è uscito il comunicato stampa del Comune di Roma.
Sparato senza tener conto della nostra acutissima sensibilità, il Comune ha scritto “Comunichiamo che l’abete rosso simbolo del Natale di Roma, è ufficialmente secco”. Ecco, di fronte a tanta violenza verbale e a un attestato di morte senza appello, ci siamo commossi, intristiti e arrabbiati con chi, come ha detto Ilario Cavada, esperto della Magnifica Comunità della Val di Fiemme, “ha sbagliato a sciogliere l’albero una volta giunto nella Capitale”.
La colpa della morte prematura di Spelacchio, va dunque ricercata nella scarsa professionalità di chi lo ha sciolto. E dire che una volta sciogliere le catene significava dare la libertà.