di GIAMPIETRO DE ANGELIS –
In una alba come tante, Jonathan Livingston guarda i suoi compagni e non comprende. Nelle prime luci, le vele al porto si riappropriano della loro magia come animate da vita propria, mentre i motori di vecchi e nuovi pescherecci si preparano per l’uscita mattutina solcando il mare con ampie e decise scie nell’acqua, verso quella sfera dorata che sembra più grande che mai. I gabbiani si svegliano dal sonno, guardano le barche già al largo e partono. Jonathan Livingston li segue, un po’ in disparte, ed osserva. E non comprende. Le grandi ali spiegate, il volo lineare ed elegante, la bellezza del sole che s’alza lo invogliano a continuare, a osare, esperimentando acrobazie per giocare con il vento e le nuvole, scrivere parole e inventare forme. E cercare un altrove, luoghi dell’immaginario che possano materializzarsi in un reale possibile. Ecco, Jonathan Livingston pensa a queste cose mentre i suoi compagni del Branco Buonappetito rendono goffo e rozzo il volo cercando di afferrare un pesce. E fa male vedere che si azzuffano tra di loro per quel boccone.
Quanta potenzialità sprecata; mangiare e dormire, e volare solo per procurarsi il cibo. E null’altro. Una vita insensata, meno di un vuoto a rendere. Il nulla, il buio dell’esistenza. Quanta bellezza ignorata! É così che Jonathan Livingston va via, verso la conoscenza del mondo e di se stesso, imparando l’arte del volo come una scuola zen, salendo con garbo la scala della consapevolezza e diventando un nuovo riferimento per altri giovani gabbiani che decideranno di seguirlo, affrancandosi da quel mondo sterile fatto solo di gesti routinari senza un vero domani.
Chissà quante volte il rimpianto Mario Lupo avrà fatto riflessioni di questo tipo nel pensare alla progettazione del monumento dedicato al gabbiano Jonathan Livingston, da porsi lungo la camminata del molo sud di San Benedetto del Tronto per iniziativa del Circolo dei Sambenedettesi. Lupo i gabbiani li conosceva bene e amo credere che abbia “visto” la sua opera con la stessa semplicità che sapeva rappresentare nei dipinti. Con quel vigore, come lo erano le sue spatolate rapide e decise, senza incertezze.
A mia volta rifletto su tutto questo, mentre cammino sul percorso ribattezzato ”The Jonathan’s way”. Sono passati trentadue anni dall’inaugurazione ma non sembrano così tanti. La vedi da lontano l’opera, quel grande cerchio che si staglia nel cielo, come un anello della vita, un circuito del possibile, con i gabbiani addossati nella parte inferiore, verso la terra ferma, verso una stabilità apparente e lui, il gabbiano ribelle, il testardo Jonathan Livingston, è lassù, in direzione del punto più alto, con le ali spiegate. É pronto per spiccare il suo volo, è pronto per l’incognito e tutte le sue potenzialità. Jonathan Livingston è pronto.
Noi sambenedettesi ormai non ci facciamo quasi più caso. Nelle nostre passeggiate al molo, in solitaria o in amabile compagnia, vi passiamo vicino distrattamente ma sono certo che uno sguardo a quel cerchio glielo diamo sempre, non possiamo ignorare quell’area di cielo circoscritta dalla circonferenza. E forse parliamo, raccontiamo qualcosa ad un amico, ma restiamo attratti da quel gabbiano pronto ad andare. Lo guardiamo ancora, anche se l’abbiamo visto centinaia di volte, anche se non tutti conoscono la storia narrata nel libro “Il gabbiano Jonathan Livingston” di Richard Bach, scritto negli anni settanta e che è stato un enorme best seller internazionale. Un libro sulla libertà e sulla liberazione dagli schemi mentali.
Mi piace concludere questo omaggio all’opera di Mario Lupo e alla nostra città con la dedica che Bach riportò in apertura al suo romanzo: “Al vero Gabbiano Jonathan che vive nel profondo di tutti noi”. Nel profondo di ognuno di noi.