di ROSITA SPINOZZI –
Ci sono persone che vivono in punta di piedi senza far “rumore” e, nonostante ciò, il loro silenzio è più assordante di qualsiasi clamore. Persone che non balzano agli onori della cronaca perché il loro arco temporale si è sviluppato in un piccolo paese dell’entroterra che ha dato i natali a personaggi più noti. Persone che, nonostante tutto, vengono fuori nella loro incommensurabile bellezza interiore tramite il ricordo di chi le ha amate profondamente. Di questo mi piace parlare nel giorno in cui si celebra la donna, ricordando la dolce e determinata figura di Rosa Illuminati, che ho avuto modo di conoscere soltanto attraverso le pagine del libro “A casa” (Sellerio editore) scritto dalla prof. Brunilde Neroni, italianista, orientalista, traduttrice di Tagore e dei più grandi autori indiani, nonché figlia del celebre basso lirico ripano, il Conte Luciano Neroni. Uno dei libri più belli che abbia mai letto, in cui la signora Brunilde, che mi onora della sua amicizia, dedica un intero capitolo alla balia asciutta Rosa, una donna minuta ma con un cuore talmente grande da contenere tutto l’amore del mondo. Facciamo un tuffo indietro nel tempo. Ripatransone anni Cinquanta. Rosa era conosciuta in paese come la Tardacì , soprannome della sua famiglia di origine, ed era a servizio della famiglia Neroni per la quale aveva accolto tra le sue braccia ben due generazioni: dapprima il Conte Luciano Neroni, dopodichè sua figlia Brunilde; per entrambi nutriva un amore talmente immenso da farle quasi scoppiare il cuore. Tanto che riuscì soltanto una volta ad andare a teatro per assistere a una esibizione di Luciano Neroni, che le riservava sempre un posto tra i familiari, per il semplice fatto che vedere il suo “bambino” sul palco le procurava troppa emozione. Per la cronaca, Rosa sosteneva che tutti cantavano “peggio” del suo Luciano, persino Beniamino Gigli. Luciano Neroni, divenuto celebre in tutto il mondo, morì all’apice della carriera a soli 42 anni, il 23 ottobre 1951, quando sua figlia Brunilde era ancora in fasce. Questa nascita impedì al cuore di Rosa di spezzarsi per sempre, e la balia iniziò a prendersi cura di Brunilde con un affetto e una devozione tali da creare una grande tenerezza nel cuore della vedova del Conte Neroni. Tutti amavano Rosa, impossibile non volere bene a questa donna che ha vissuto ogni giorno dela sua vita con il solo scopo di rendere felici le persone a lei care. Nonostante il suo “segreto”, un macigno pesante che avrebbe tolto il sorriso persino alle persone più forti. Tutti sapevano, tranne Brunilde che era troppo piccola e che a soli cinque anni insegnò alla balia a comporre la sua firma, successivamente anche a leggere e scrivere. Soltanto all’età di vent’anni, e dopo la morte di Rosa, Brunilde ebbe modo di conoscere da sua madre la dolorosa storia di questa piccola, grande donna, che le era stata accanto cercando sempre di coprirle gli occhi sulla crudeltà della vita. Quella crudeltà che aveva quasi rischiato di ucciderla, nel corpo e nella mente. Torniamo ancora indietro nel tempo, quando all’inizio del secolo la maggior parte dei campi del nonno di Brunilde era coltivata a grano e, nel mese di giugno, per la mietitura arrivavano dalla Toscana dei braccianti perché la manodopera dei mezzadri non era sufficiente. I lavoratori stagionali venivano ospitati nei casali dove prestavano la loro opera. Accadde che l’ultimo giorno della mietitura del 1908, tre di loro stuprarono vicino a un fosso la più piccola delle figlie di Tardacì, all’epoca poco più che adolescente. Rosa era andata a portare da bere ai lavoranti e questo atto di generosità le fu fatale perché i tre toscani, anche loro giovanissimi, abusarono di lei e per farla tacere la tramortirono a calci e pugni. A trovare Rosa, più morta che viva, fu sua sorella Elisa che, dopo averle prestato i primi soccorsi, la caricò in spalle per portarla a casa. La violenza mise radici e causò una gravidanza. Quando i genitori di Rosa lo scoprirono, decisero di cacciare di casa questa figlia “indegna”, “colpevole solo di non aver gridato abbastanza forte da attirare la loro attenzione”. Rosa andò a vivere da sola in una stalla, abbandonata da tutto e tutti, tranne dai fratelli che, a turno, la sera le portavano di nascosto da bere e da mangiare, correndo il rischio di essere a loro volta puniti dal padre. La madre, invece, se incontrava Rosa non esitava a lanciarle dietro dei sassi, augurando la morte a lei e al suo figlio “bastardo”. Arrivò l’inverno e una sera il Conte Neroni, aggirandosi per le stalle con il suo cavallo, udì un lamento che via via si faceva sempre più insistente. Andò subito a controllare e trovò Rosa semidissanguata per una emorragia. La portò immediatamente in ospedale, dove la donna partorì un figlio morto, la fece curare, accolse le visite della sorella Elisa, cacciò via con dure parole i genitori Tardacì poiché la loro vista turbava la malata. Una volta guarita, le porte di casa Neroni si aprirono per Rosa, dove venne accolta al loro servizio, finalmente amata e rispettata come meritava. Iniziò così una nuova vita per questa donna sopravvissuta alla crudeltà umana grazie alla forza dell’amore. Tutto il resto, lo sapete già. Mi commuovo sempre ogni volta che ricordo questa storia e non smetterò mai di ringraziare Brunilde Neroni per aver scritto un libro così bello e appassionato, dedicato soprattutto a suo padre Luciano, ma anche alla Città di Ripatransone e alla sua balia. Rosa Illuminati è una donna che merita di essere amata, rispettata e ricordata nel tempo. Una donna che non fa “rumore”, ma la cui eco va oltre il secolo per arrivare ai nostri cuori. Brunilde mi ha sempre detto che sua madre era molto brava a fare le tagliatelle, ma che in quelle di Rosa “c’era il sole dentro”. Proprio così. Rosa è un po’ come il sole, perchè ha illuminato e portato calore nella vita di tante persone.