di PGC –
FERMO – Due concerti in uno. Nella prima parte, sul maestoso palcoscenico del Teatro dell’Aquila, Claudio Marcotulli è solo con la sua chitarra e le composizioni di E. Sainz de la Maza, J. Turina, J. Rodrigo, I. Albeniz. Nella seconda – circa trenta, fra coristi, direttore e ancora Marcotulli – irresistibili aleggeranno il Poema del Cante Jondo di Garcia Lorca e il Romancero Gitano op.152 di Mario Castelnuovo-Tedesco che ne ha musicato i versi.
Del “primo” concerto diremmo d’esser rimasti sedotti, se non ci prendesse il cruccio di non saper poi dire ancor meglio del “secondo”.
Fluisce tanta musica da quel solo strumento di sole 6 corde da sembrare – a noi poco avvezzi – che siano almeno due le chitarre. Costruita in un paesello qua vicino, la superclassica elegante chitarra di Marcotulli sopravanza perfino, all’occorrenza, il volume di suono e di note di un’arpa di quelle altissime (non celtica quindi) percorsa da una moltitudine di mani brave. Un’orchestra. Con tutte le coloriture possibili, dal piano pianissimo morbido-romantico all’irruenza della più caliente España.
Tecnica sublime ma “invisibile”, quella di Marcotulli: niente prove muscolari, acrobazie, effetti speciali… non lo vedi muovere un muscolo. Dipana il percorso musicale con naturalezza e apparente facilità, a dispetto dei frequenti cambi d’accordatura tra un pezzo e l’altro.
Composizioni, anche le meno conosciute, che trascinano comunicano coinvolgono, pure in questo per noi “primo ascolto”: ci sorprende – pur conoscendo l’acustica perfetta dell’Aquila (Teatro) – poter captare l’anima chiara di ogni suono, anche quando la melodia non c’è, anche quando l’impianto musicale è per noi arduo, o quando affiora ed esplode il criptico carattere “contemporaneo” di questi strani autori novecenteschi di Spagna.
Al “secondo” concerto la visuale si complica e si moltiplica. Un coro è scenografico per definizione, e qui l’efficace disposizione ad arco consente d’individuare ogni voce, non solo dei solisti.
Un coro è un’orchestra strana: di legni di metalli e di carne, le sue voci possono saettare, sferzare, spaventare; i coristi sono come strumenti musicali veri (a corda, a percussione, a fiato…) comandati da tasti, pizzicati da dita, percossi da bacchette… Il tenore è un sax, il basso è un contrabbasso, il contralto è un violino… quello fa “veramente” il pianoforte, quell’altro fa “davvero” la tromba, o la chitarra… Con la voce!
Questo Coro del Teatro Ventidio Basso di Ascoli Piceno, quasi unico, non è una “corale” – che dalle nostre parti ne abbiamo tante, con tutto il rispetto – Una corale, penso, non avrebbe potuto affrontare neanche la più facile delle opere di Castelnuovo-Tedesco, figurati questa.
Lui, italiano “affezionato per forza” all’America, compagno di Stravinskij e Toscanini, amico di Pirandello e Segovia, compositore inarrestabile e fluviale, non poteva non abbracciare la poesia di Garcia Lorca musicandola proprio per chitarra, moderna lira simbolo di poesia e strumento principe del cantare andaluso.
Ne ha fatto un impressionante “Romancero Gitano”, che è un’opera ed è un poema. Di ascolto pensoso sofisticato e inebriante, da flâneur.
E questo Coro, il suo direttore Farina, la chitarra di Marcotulli, han dato stasera con dolcezza e irruenza, perfino a noi un po’ digiuni del ramo, il senso della poesia combattente e paesaggistica che fu quella di Garcia Lorca (“la poesia è un fuoco”, diceva).
Cuando yo me muera,
enterradme con mi guitarra
bajo la arena
[F.Garcia Lorca, Memento]