di PAOLO DE BERNARDIN –
“La ricostruzione può iniziare soltanto quando non resta più niente in piedi ma tutti i piccoli pezzi sono sul pavimento. Sono fatto di quello che ero ma prima ho dovuto buttarlo tutto giù. E così è iniziata la decostruzione ed è tempo per me di cadere a pezzi. Se pensi che sia stato difficile ti rispondo che nulla cambia fino a quando inizi la scomposizione. E inizio subito adesso. Mi romperò. Mi romperò”. Mark Oliver Everett è uno degli autori più alti delle ultime generazioni e le sue “anguille” sguisciano con grande autorevolezza tra le sue canzoni sempre in bilico tra alti e bassi, tra vuoti e sorrisi, metafore e filosofia, come in una grande ruota panoramica piena di analisti che lo scrutano, guidano e consigliano. A seguito dell’incredibile lavoro del 2014, “The cautionary tales of Mark Oliver Everett”, un vero apice di perfezione e bellezza e di riflessi sulla molteplicità di personalità del suo barbutissimo autore, “The deconstruction”, dodicesimo album in oltre venti anni, non si smentisce e segue le stesse orme tra pieni orchestrali e melodie pop di notevole bellezza e mai eccentriche o alla moda (“In our cathedral”, “Premonition”, “Be hurt”, “The i said it”, You are the shining light”, “Bone dry”, la magica e malheriana “The epiphany”, la finale “Sweet scorched Earth” dall’attacco à la “Jesus Christ Superstar” o “Rocky Horror Picture Show”) in cui sa raccogliere un passato di grandi autori restituendo loro estrema modernità ad attualità mettendo insieme pop rock irlandese e americano (gli Eels di Mr E.,come ama farsi chiamare, sono californiani). Si usano molto orchestrazione e coro, segno di un lavoro dosato nel tempo e pensato in lunghi mesi e cosi in “Rusty pipes” i sottofondi iniziali sono dedicati alla “Madame Butterfly” di Puccini e al celebre coro a bocca chiusa. Nonostante le lezioni di psicoanalisi del precedente lavoro, su “The deconstruction” c’è una visione più leggera e apparentemente meno disperata. Nonostante il fiammifero in copertina che faccia ardere tutto. In fondo il desiderio di scendere il più basso possibile non è altro che la voglia della risalita, lenta o veloce che sia per ritrovare nella continua riflessione quella luce spesso appannata da pensieri negativi. La luce di poesia delle sue canzoni è però sempre molto vivida e tutto il disco non si abbassa mai sotto le soglie della grande bellezza. “In fondo pensi che sia arrivata la fine ma semplicemente perché tu non riesci a vedere dietro l’angolo” (“Be hurt”). Impossibile stancarsi di ascoltare continuamente questo lavoro.
STANDARD
(La storia delle canzoni)
All the way (Cahn-Van Heusen), 1957
“Quando qualcuno ti ama lo deve fare totalmente perché hai bisogno del sostegno totale. Devi sentirti più saldo dell’albero più forte e il suo amore deve essere più profondo del mare azzurro. Così deve essere per tutta la vita negli anni belli e in quelli brutti. Solo uno stupido potrebbe dirci dove questa strada possa condurci ma se tu lasci che ti ami io di sicuro ti amerò totalmente. Totalmente.”
É molto curiosa la storia di James Van Heusen, al secolo Edward Chester Babcock, (Syracuse New York, 1913-Rancho Mirage California, 1990) prolifico autore di canzoni, spesso utilizzate per il cinema e pluripremiato in molte categorie. Scrisse canzone sin dall’età della scuola a 16 anni, e decise subito di cambiare nome perché era affezionato ad una Tshirt della ditta Phillips-Van Heusen che usò nei suoi primi programmi radiofonici. All’università divenne molto amico di Jerry Arlen, fratello minore di Harold (il celebre autore di “Over the rainbow”) col quale iniziò a collaborare. Con credenziali simili gli si aprirono tutte le porte e nel suo primo decennio di attività negli anni ’40 compose oltre 60 canzoni tra le 800 di tutta la sua carriera, cinquanta delle quali divennero dei veri a proprio standard popolarissimi fino ad essere inserito della Hall of Fame dei compositori nel 1971. Con quattro Oscar vinti e ben 10 altre nomination ottenute, con Emmy Award e Grammy per la musica cui si aggiunsero Tony Awards, Golden Globes e altri premi minori ebbe una popolarità straordinaria grazie alla sua enorme simpatia che rimpiazzava la sua poca bellezza. Si avvalse di autori di testi di chiara fama come Sammy Cahn, autore della stessa “All the way” ma anche di Johnny Burke, Eddy DeLange, Carl Sigman, Johnny Mercer, e fu egli stesso autore del testo di qualche sua canzone. Grazie a molti brani portati al successo da Frank Sinatra, Van Heusen divenne amico strettissimo e molto intimo di “The Voice” e fu proprio lui a portare nel in ospedale nel 1953 l’amico Sinatra quando questi si tagliò le vene dei polsi a causa della fine della sua unica vera storia d’amore della sua vita giovanile, quella con Ava Gardner che l’aveva tradito con Walter Chiari. Sinatra, dalla vita amorosa travagliatissima (tutte le donne più belle dell’epoca furono sue) era un vero satiro e maniaco sessuale e Van Heusen fu spesso il suo paraninfo al punto tale da andare la notte, al rientro dell’artista in albergo, dopo aver passato serate con le donne più desiderate al mondo, a cercare prostitute per il suo insaziabile amico. Nel 1957 la carriera di Sinatra era di nuovo in auge, soprattutto grazie al cinema che lo aveva rilanciato con “Da qui all’eternità” di Fred Zinneman (Premio Oscar come attore non protagonista nel 1953) e “L’uomo dal braccio d’oro” di Otto Preminger (1956), l’ interpretazione più importante della sua carriera che gli valse solo una nomination, battuto da Ernest Borgnine per “Marty” di Delbert Mann. Chiamato dalla Paramount a interpretare a fianco di Mitzy Gaynor, il ruolo biografico dell’entertainer della Chicago degli anni Venti, Joe E. Lewis che nei suoi show incitava il pubblico a ribellarsi al Proibizionismo. Il film era “The joker is wild” (in Italia “Il jolly è impazzito”) per la regia del quotatissimo Charles Vidor. Dopo aver letto il libro di Art Cohn da cui fu tratta la storia, Sinatra entrò perfettamente nel ruolo al punto tale da comprarne i diritti pretendendo che le canzoni nel film fossero tutte registrate dal vivo e in diretta per rendere il tutto più genuino. Il tema principale di quel film non era altro che “All the way” di Sammy Cahn e James VanHeusen, una delle canzoni più amate (anche se non da subito) e più eseguite da Frank Sinatra che valse agli autori il Premio Oscar. Sinatra dal 1956 al 1993 (con Kenny G) incise “All the way” ben sette volte ma il brano fu preda di molti musicisti jazz, spesso sassofonisti, e molti cantanti, ad iniziare da Dick Farney, Julie London e Dick Martin che la eseguì la serata dell’Oscar, in assenza di Sinatra, Sammy Davis Jr., Keely Smith, Brenda Lee, Oliver Nelson, Bllie Holiday (con la voce ferita dalla droga e dalla sventura la incise prima di morire nel celeberrimo “Lady in satin”), Brenda Lee, Roy Hamilton, Mal Waldron, Jane Morgan, Jack Kennedy, Lee Morgan con Sonny Clark, Steve Lawrence, Neil Sedaka, Henry Mancini, e persino l’eccezionale sax di King Curtis con una strepitosa versione soul. La canzone fu apprezzatissima anche in Italia nella versione scritta da Gian Carlo Testoni e Gaspare Abbate e col titolo di “Sì amor” e cantata da Jula De Palma nel 1958, Natalino Otto nel 1959 come pure Nicola Arigliano e Gino Latilla fianco di suo padre Mario nel 1964. La stessa Mina riprese la versione originale nel 1995 come pure Johnny Dorelli. Negli ultimi tempi “All the way” fu eseguita anche dalla straordinario Jimmy Scott in una memorabile versione, Monty Alexander (1996), Bob Berg (1997), Joe Lovano (1996), Celine Dion (1997), Barry Manilow (1998), Etta James (2006), Harry Connick Jr, (2009) fino ad arrivare al recentissima versione (pietosa) di Bob Dylan lo scorso anno.
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