di ELIANA NARCISI (ELIANA ENNE) –
Sorriso disarmante, sguardo gentile, fisico asciutto e scattante proprio come quando si allenava. Ho impiegato un po’ a convincerlo a trovare il tempo per un’intervista, è sempre di corsa e i pochi momenti che gli rimangono liberi dal lavoro e dagli impegni personali, Roberto Bassi li passa in buona parte ad allenare giovani e giovanissimi che condividono la stessa passione per il pugilato. Tanti i match vinti, i riconoscimenti importanti, il bronzo nella propria categoria, il titolo di vice campione universitario e, soprattutto, quello di campione nazionale della categoria super medi, conquistato nel 2015 ad Arezzo e successivamente difeso proprio qui, a San Benedetto, in un affollatissimo Palasport di cui ancora sul web circolano le immagini.
Chi ti ha avvicinato al mondo della boxe?
Mio zio, Eugenio Iovannelli. Ero ragazzino ma già assistevo agli allenamenti e anche agli incontri. Ammiravo i professionisti, la loro tecnica, il coraggio, la serietà; ascoltavo gli insegnamenti e mi ripetevo che un giorno sarei diventato uno di loro.
Non avevi paura del dolore fisico? (domando ingenuamente e lui scuote la testa divertito)
Parli così perché lo vedi come uno sport violento, invece non lo è. Occorre fisicità, tecnica, ma prima di ogni altra cosa devi usare la testa. E avere la giusta attenzione, per te stesso e per l’avversario. Impari a dare rispetto e a chiederlo, per le cose e per le persone. Ai miei allievi, la prima cosa che insegno è salutare tutti quando si entra in palestra, nessuno escluso. E a voce alta, con sicurezza.
Scorro rapidamente i suoi profili social e gli domando perché non pubblica le foto dei combattimenti. Lo fanno i suoi seguaci, coloro che lo sostengono (e sono migliaia). Lo taggano su Facebook e scrivono di lui, dei suoi impegni, dei successi. «Non devi essere tu a dire “Ho vinto”» chiarisce «La prima cosa che ho imparato dalla boxe è l’umiltà».
Più che uno sport, sembra una disciplina di vita…
Dietro ogni match ci sono allenamenti, impegno, rinunce, si vive con serietà e rigore. Nel combattimento basta distrarsi un solo istante per prendere il colpo che ti manderà a tappeto.
I sacrifici, però, non l’hanno mai spaventato. Cresciuto in fretta in una famiglia numerosa, un’adolescenza divisa fra studio e lavoro, il pugilato sembra avergli forgiato il carattere, al punto che è riuscito a farlo suo, a dargli la sua impronta. Roberto oggi è un uomo di trentaquattro anni con un impiego a tempo pieno e una laurea in giurisprudenza che trova sempre il modo di dedicarsi agli altri, ai progetti che contano e che fanno bene al cuore. Come con i ragazzi del Centro Educativo Biancazzurro, con i bambini nelle scuole, coi programmi complementari e gli incontri pubblici sullo sport, sull’alimentazione corretta, sullo stile di vita sano. Lo ascolto e penso che, nonostante le mille difficoltà, ha mantenuto la genuinità e l’entusiasmo di un ragazzino e forse è davvero merito della passione per il suo sport.
Parlami di quando hai vinto il titolo nella categoria super medi…
Attraversavo un periodo di crisi personale, ero sempre un passo indietro rispetto alla meta, avevo la sensazione di sfiorare il sogno di una vita e di non riuscire a trattenerlo fra le mani, non del tutto. Ci ho pensato parecchio e alla fine ho capito che avevo bisogno di un cambiamento drastico. Una nuova palestra vuol dire un nuovo allenatore. Con Attilio Romanelli, il mio precedente preparatore, ne abbiamo parlato apertamente e lui ha capito. É stato un secondo padre per me, mi ha seguito per tanti anni, ma avevo bisogno di nuovi stimoli. Ho fatto bene ad andarmene perché, paradossalmente, la novità ha spazzato via le abitudini, le certezze e mi ha costretto ad alzare il livello di attenzione e di concentrazione, mi ha spinto a dare di più. Mi è stata data l’opportunità di combattere per il titolo nazionale nei pesi super medi, una categoria che non era la mia e anche questa l’ho vissuta come un’opportunità di mettermi in gioco per qualcosa di nuovo.
E la grande occasione è arrivata il 10 gennaio 2015. Vincere ad Arezzo è stato come pareggiare i conti con una vita percorsa tutta in salita. Roberto è amatissimo in città e non solo dagli appassionati di pugilato. Ricordo ancora, al suo rientro da Arezzo, quando ha portato la cintura simbolo del titolo nazionale allo stadio per esibirla davanti ai tifosi e la curva Nord gli ha tributato un lungo e caloroso applauso. «Devo essere grato alla gente per l’affetto, per avermi sostenuto e seguito con entusiasmo – dice – Vorrei ringraziarli uno per uno».
Osservo con attenzione i suoi numerosi tatuaggi e uno mi colpisce più di tutti. É un disegno molto grande. C’è un veliero («Potrei essere io» suggerisce), c’è una strana bussola che al posto dei quattro punti cardinali indica le lettere P A R M. Sono le iniziali dei nomi Piero, Antonella, Roberto, Michele. «Siamo noi quattro fratelli» confessa, «l’uno il punto di riferimento dell’altro». Accenna un sorriso che intenerisce e quasi cancella l’immagine del campione sicuro e fiero di qualche istante fa. Si commuove, lo fa sempre quando nomina la famiglia. Si accarezza il braccio nel punto in cui ha tatuato il nome di Michele, che purtroppo oggi non c’è più. Accanto al veliero, il tatuaggio prosegue, c’è un marinaio che scruta l’orizzonte. Cerca la sua strada. «Vedi, un campione non si costruisce in palestra,» mi spiega, «ma da qualcosa che ha dentro, nel profondo. Un sogno. Tu ce l’hai un sogno?» domanda all’improvviso e mi spiazza. «Come tutti» replico. «Bene. Ma devi crederci,» mi ammonisce. «Prima o poi troverai la strada giusta per realizzare il tuo obiettivo. Decidi tu quale treno prendere, ma scegli il tuo, perché ne passeranno tanti, ma il tuo passerà una volta sola».
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