di CRISTIAN SPINOZZI –
Il regista olandese e la sua poetica silente hanno conquistato il pubblico di Blow Up. Il microcosmo di Jaap Pieters raccontato attraverso tredici pellicole e la sua amicizia con il filmmaker italiano Albert Figurt –
GROTTAMMARE – Nella serata di mercoledì 10 ottobre, presso l’Ospitale Casa delle Associazioni, all’interno della programmazione di “Blow Up”, Jaap Pieters si è presentato con tredici pellicole. Dopo un lungo tempo di attesa, Jaap dalla lunga barba bianca e capelli castani che gli arrivano alla schiena, ha fatto il suo ingresso con una giacca rossa. Parla fluentemente inglese, come seconda lingua dopo l’olandese, ed è stato così che ha potuto interagire con l’artefice della serata, il filmmaker italiano Albert Figurt, suo amico da circa dieci anni. Ad Amsterdam, infatti, Jaap lo ha ricevuto nella sua casa per concedergli di filmare un documentario dedicato alle personalità bizzarre: in questo caso, “l’accumulatore seriale”. Il videomaker olandese non era stato avvisato dell’arrivo di questo ragazzo, tant’è che la fonte del recapito civico non era persona nota e né a lui molto gradita. All’interno della dimora, in ogni lato delle stanze c’erano pile e cataste di oggetti, sia vecchi che nuovi di due giorni, che addobbavano tavoli e scaffali in modo spasmodico. Un oggetto sopra ad un altro, addirittura compressi, ma ordinati secondo un rigore coscienzioso trasfigurandosi in installazioni casalinghe. Per chiudere il cerchio, Jaap ha scattato diverse immagini con una fotocamera Nikon a cartucce verso gli spazi della sua abitazione, tra tendoni di plastica o in bilico su una scala in pendenza con la propria testa che si pressava contro il soffitto agendo da perno. Il documentario “The Ultimate Random Collection” di Albert Figurt, tuttavia, dopo ben otto anni non ha ancora una distribuzione.
Come ad ogni evento che lo riguarda, Jaap Pieters disegna e scrive a mano il dépliant nel quale elenca i cortometraggi e nei tredici filmini della serata, emerge che lui non è un regista, argomento già affrontato tramite la presentazione, e né tantomeno un visual artist, ma un documentarista: un filmmaker, se si pensa che la parola “film” deriva da “pellicola” nei cui riguardi l’oggetto che gli consente l’operato è proprio la videocamera analogica Super 8, oppure in un modo più appropriato si può definirlo un “videomaker”. Non effettua montaggi nel suo girato, eccetto sbalzi di piccoli secondi e riprende soggetti a suo dire interessanti che il più delle volte ha casualmente davanti agli occhi, e cioè, un passatempo non redditizio e da cui lui non chiede alcun denaro. Viaggia spesso con appresso le copie dei suoi rulli di pellicola 8mm selezionati e il suo personale proiettore. La scelta si trasportare tale carico è frutto del suo rifiuto verso la tecnologia, verso quindi, la videocamera digitale munita di scheda di acquisizione dati. É assai complesso rintracciarlo, dal momento che non possiede alcun cellulare o computer.
I cortometraggi sono estremamente concreti, situazioni di vita reale di una manciata di minuti che lui non manca di imprimere di significati, alcuni dei quali rimandano alla sua vita. I titoli nascono da aree dei fotogrammi che ne suggeriscono le parole. Il pubblico intervenuto all’incontro, all’inizio numeroso, si è ridotto a circa la metà a causa del tardo orario. Ma essendo un fuori programma e per di più decisamente straordinario, è valsa la pena restare fino in fondo per ascoltare la “lezione” di Pieters. Non capita tutti i giorni di incontrare un uomo così creativo e dalla spiccata personalità. Le domande che gli sono state rivolte erano per lo più incentrate sulla resa fotografica dei filmati e sulla relazione tra le cose. Jaap Pieters ha risposto senza esitazioni e successivamente ha rinfoderato la propria attrezzatura per il viaggio di ritorno trascinando quei lavori che, forse, non avrebbe mai smesso di fare da quando, nel 1985, un amico tedesco gli regalò un Super 8 avvolto in un maglione.
Ecco i cortometraggi presentati durante la serata
In “Winstons Famous Grouse” (1996), Pieters riprenda un sezione della sua casa, libri, scartoffie e una luce entrante da una finestra si scostano dagli ingrandimenti improvvisi che lui pone su precisi oggetti, sembra cercarli: una tazza di vetro su un “altare” (questo rappresentano gli oggetti). Esplicita l’attacco morboso per le cose. Le imperfezioni della pellicola accompagnano il silenzio del rullo del videoproiettore. Quest’ultima è la nota ricorrente nella gran parte dei suoi video.
In “Schreeuwman [l’uomo dello schermo]” (1994) Pieters, in quello che è un suo gusto personale, filma a distanza entro la sua finestra, un uomo che sbraita e chiacchiera da solo nel marciapiede all’altro lato della strada. Nessuno pare sostarsi, tranne un signore con un bambino per poi procedere oltre.
“Kim e Steven” (1994) vede protagonisti il piede e la mano di due suoi amici in visita. Steven massaggia con decisione il piede nudo fino alla tibia di Kim.
“Schone Uitzichten [bei panorami]” (1997) è filmato a Instanbul. In direzione del campo visivo si vede una donna delle pulizie strofinare un’alta vetrata di un palazzo e di tanto in tanto, salta in piedi sul davanzale per pulire la facciata esterna secondo un regolamento coinciso.
“de Vliejenier [l’aviatore]” (1995), l’aeroplanino che un tizio stringe stando rigido sul marciapiede è al centro della storia, lo sguardo è fisso. La posa durò almeno quattro ore.
Per “het Gewicht (AKA Who’s Afraid of Red Yellow & Blue) [il peso (AKA chi ha paura del rosso, giallo & blu]” (1998) Jeep entrò in un classe elementare per testare le espressioni dei bambini nel tentare a turni di sollevare una zucca dalla cattedra che la maestra aveva portato. Scritte sulla lavagna sono leggibili le parole che fanno riferimento al titolo, mentre sulla destra appare il disegno di un ragno rosso e blu.
In “de Winkelwajenman [l’uomo del carrello]” (1991) tre inneggianti carrelli stracolmi di sacchi giganti sono spostati alla volta da un senzatetto con il colbacco fino a un bidone della spazzatura. Riprenderà la stessa manovra più tardi. Si tratta di un attegiamento similare alla fissazione del videomaker.
“Spin suisse [il ragno svizzero]” (2000) mostra l’errato sviluppo della pellicola dalla ripresa di un ragno mimetizzato nel bagliore giallo al centro della ragnatela. Dopo un minuto un corpicino smussato esce dalla chiazza, ma rimane avvolto d’oro, quindi le gira attorno. Dalla pellicola si è generata un’altra veduta.
In “Zilver Gryze Golven op het Lanc of de Witte Zee (met dan haan TGR) [le grigie argentare onde sulla terra alias il mare bianco]” (2000) un velo bianco copre un suolo che forse nasconde qualcosa, contemporaneamente il vento lo agita procudendogli grossi rigonfiamenti e sembra rassomigliare al mare. Nei paesi interni dell’Europa difatti quella distesa d’acqua non c’è.
“Jimmy’s ballet” (1993) riscopre il vagabondo che spingeva i carrelli per volta in veste di direttore del traffico su volontà del servizio civile. Sono più le persone a incrociarlo che le automobili, ma lui continua ininterrottamente a improvvisare un balletto composto di segnali per il traffico. Dopo quell’accaduto, Pieters non lo vide più.
“Mersey Side” (1996) documenta il raccoglimento di acqua marina da parte della benna trascinata di una gru.
“de Blikjesman [l’uomo lattine]” (1991) scruta un passante visibilmente ubriaco e con indosso abiti stracciati, che camminando continua a perdere a ogni due passi le lattine che cerca faticosamente di ficcare nelle proprie tasche vuote e bucate ma che, magicamente, ne fanno precipitare una nuova ondata. Il tutto sul ciglio della strada.
Con “de Kopjesdans [il ballo delle tazzine]” (1994) Pieters contestualizza l’agitare delle tazzine impilate l’una sull’altra grazie al rumore gravoso della lavatrice sottostante (fuori campo) in una sorta di prova di forza. I suoni delle tazzine si sommano.
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