di ALCEO LUCIDI –
Nadia Murad, attivista per i diritti umani irachena, di etnia yazida e il medico congolese Denis Mukwege hanno vinto di recente, il 5 ottobre, il premio Nobel per la Pace. L’Accademia di Svezia ha riconosciuto il loro potente impegno per la difesa dei diritti umani feriti, vilipesi e negati. Soprattutto per la dignità umana barbaramente oppressa. La Murad lo ha fatto da “fenice combattente” – come l’hanno definita – riuscendo a fuggire dai brutali stupri di massa, usati anche come arma psicologica e di cui è stata vittima dopo avere visto trucidata l’intera famiglia, perpetrati dall’esercito dell’Isis nel nord del martoriato Iraq, rifugiandosi in Germania e divenendo ambasciatrice dell’Onu contro le tratte umane. Mukwege ha a lungo assistito e lenito le ferite, soprattutto, delle donne vittime di stupro – ora parificato al reato di genocidio dalla Convenzione di Ginevra – battendosi con forza contro la corruzione, l’inerzia, i silenzi del suo stesso Stato.
Viene allora da chiedersi quanto si sia fatto sinora per sostenere le popolazioni imprigionate dalle guerre; quanto abbiano agito le istituzioni internazionali, se insomma sia risonata forte la voce di coloro i quali – politici e diplomatici in testa – potrebbe e dovrebbero legiferare sui soprusi agendo per il bene comune senza limitazioni e timidezze. Il bilancio – verrebbe da dire – è magro e tende al fallimento. Il silenzio colpevole degli emissari dei popoli e l’impotenza del diritto internazionale non giustificano però la mancanza di coraggio e di indignazione, le poche voci (anche di intellettuali) che si levano per condannare le efferatezza umane e l’orrore del male.
Lasciato però il momento polemico, non produttivo per la risoluzione dei problemi, veniamo ai fatti e alle nostre coscienze frastornate quando la violenza assume delle forme così disumanizzanti. Nadia è stata, dopo l’orribile 2014, la prima donna nel dicembre del 2015 ad essere accolta dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu per denunciare apertamente la schiavitù sessuale e le torture inflitte alle donne stesse, di ogni genere, dai carnefici. Si è battuta con caparbietà per portare la testimonianza di tante poveri indifesi; ha lanciato moniti, smosso coscienze perché consapevole che ogni lotta di civiltà passa attraverso l’informazione e l’educazione. Così come Denis Mukwege. E davvero qui la linea di confine tra la medicina militante tra i campi profughi o nei vasti ospedali da campo lasciati dai conflitti e la lotta senza confini ai soprusi, alle ineguaglianze, all’ignavia cade inesorabilmente per congiungersi in un grande, eroico afflato umano.
Superare gli steccati, al di là di ideologie e confini, che uccidono le coscienze: ne parlava eloquentemente in un suo scritto del 1963 il filosofo Jacques Maritain, Dio e la permissione del male o, più concretamente, Hannah Arendt, sempre nel 1963, in La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme.
I tanti Eichmann sono i centinaia di talebani e seguaci dello Stato islamico che in forme più sofisticate, praticano il male non perché di indole malvagia ma perché ispirati da un sistema di idee deviato, da credenze religiose – quanto male si fa così alle religioni – malate e sospinte da un diabolico (quello sì) piano di eversione politico-economico, da uno sconvolgimento degli assetti internazionali, da un disequilibrio nella distribuzione delle ricchezze, da rancori tra popoli mai sanati, che provocano terre bruciate, devastazioni, manipolazioni del pensiero, “burocrati” dell’orrore.
Fermare tutto questo si può e si deve: bandendo le armi, regolando internazionalmente i vecchi e nuovi conflitti, riarmando la diplomazia ed educando al dialogo tra civiltà, insomma, ad un ecumenismo della post-modernità. La pace non è solo l’assenza di guerra – dice Papa Francesco – ma la costruzione di ponti tra popoli e un severo esame di coscienza anche personale. Parafrasando le parole di Carlo Bo, a proposito del suo commento al dramma storico di Rolf Hochhuth sull’Olocausto, Il Vicario, quando il male assume tali proporzioni ogni barriera retorica cade e l’uomo si ritrova solo di fronte alla proprio essere morale. Di nuovo. Senza sconti.
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