di ELIANA NARCISI (ELIANA ENNE) –
Fatti legare mani e piedi, le gambe, il corpo, poi quando sei completamente incapace di un solo movimento fatti pure bendare. Non deve arrivarti neppure uno spiraglio di luce. A tutto questo, immagina che persino parlare ti richieda uno sforzo senza pari. Ti verranno contrazioni e dolori allucinanti ogni due ore, per reggerli senza impazzire – ammesso che sia possibile – occorreranno dosi di morfina via via crescenti. Può ancora chiamarsi Vita quella di chi è costretto così? É davvero così difficile comprendere la volontà di abbandonare un corpo che da anni ha abbandonato la persona?
Quando ha deciso di ricorrere al suicidio assistito, la vita di Fabiano Antoniani, per tutti dj Fabo, era questa da più di tre anni. Insopportabile, troppo diversa da quella che faceva prima e talmente dolorosa che non l’avrebbe augurata neppure al suo peggior nemico. Perché la qualità è decisamente più importante della quantità e perché un’esistenza non può essere ridotta alla somma dei giorni a prescindere da come li si trascorre.
La battaglia di Fabo non è stata la prima, ma potrebbe essere l’ultima, perché oggi la Corte Costituzionale ha preso una posizione storica, ha riconosciuto il valore della dignità e l’importanza di tutelarla in ogni situazione umana, nella vita così come nella morte. La situazione di chi è ridotto nello stato in cui viveva Fabo è meritevole di protezione e lo Stato non può continuare a ignorarla: l’ordinanza emessa dalla Consulta, sostanzialmente, dà un anno di tempo al Parlamento per legiferare sul “fine vita”. Perché chiunque si trovi in quella stessa dolorosissima situazione possa decidere di andare via libero, con il sorriso.
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