di AMERICO MARCONI –
C’è un luogo sui Monti Sibillini al quale sono particolarmente legato: è l’Eremo di San Leonardo al Golubro. Posto tra una corona di cime a 1128 metri, addossato al monte Priora, davanti al versante nord della Sibilla. Il suo atto di donazione e fondazione riporta: «Nell’anno dell’incarnazione del Signore 1134, io Druisiana, Ancilla Christi, figlia di Bodetoccio, moglie del conte Lamberto, dono all’Eremo di Santa Croce di Fonte Avellana, nella persona del Priore Benedetto e suoi successori, la chiesa di San Leonardo edificata sul luogo detto Volubrio». San Leonardo rimase ai monaci Avellaniti fino al 1523, poi per 40 anni passò ai Camaldolesi di Monte Corona e nel XVII secolo venne abbandonato per i prolungati inverni e per la crescente presenza di “banditi e imboscati”.
Nel XX secolo un frate Cappuccino, Padre Pietro Lavini al secolo Armando, risiedeva nel Santuario Madonna dell’Ambro. Dopo essere salito più volte ai ruderi di San Leonardo gli sembrò di udire, sempre più forte, le stesse parole che aveva udito San Francesco: «Va e ripara la mia casa cadente». Avuti i permessi e la donazione del proprietario, a fine maggio del 1971 inizia il suo duro, paziente e solitario lavoro. Trasporta pietre, le squadra, innalza muri nuovi; dormendo nelle grotte che avevano accolto gli antichi eremiti.
La prima volta che andai a trovare Padre Pietro, nell’estate del 1975, mentre preparavamo il pranzo nel locale cucina appena edificato, sorridendo disse: «Chiamandomi Pietro non potevo fare altro che lavorare la pietra!». Da allora non ci fu anno che non salii, anche più di una volta, a portargli un saluto. Un classico era andarci la Vigilia di Natale per partecipare alla sua celebrazione della Santa Messa. Anni più tardi fu il Papa Giovanni Paolo II a soprannominarlo Il Muratore di Dio e con quel soprannome scrissero di lui i giornali e finì anche in televisione.
Ora vorrei accompagnarvi verso l’Eremo o meglio il Monastero, come lo chiamava Padre Pietro. Da Montefortino si raggiunge Rubbiano, poi seguendo una strada bianca si arriva ad una sbarra. Da essa si prosegue a piedi scendendo a un orrido che porta il nome di Infernaccio. Gola che si percorre con un sentiero, malagevole in certi tratti, tra il rimbombo delle acque del fiume Tenna. Usciti dalle strette e buie pareti traversiamo in salita un fitto bosco secolare di faggi. In quarantacinque minuti si raggiunge un balcone luminoso incastonato tra le montagne. Verso sud risalta la bianca chiesa edificata da Padre Pietro in 44 anni di continuo e silenzioso lavoro.
Padre Pietro non è più tra noi dall’agosto del 2015. Ma ha lasciato la sua Opera, momentaneamente non visitabile per la messa in sicurezza dopo il terremoto nel 2016. Eppure tornando sul posto si può udire la sua voce, sussurrare nel vento la frase che più amava: «A che vale la vita senza vita?». È l’eredità spirituale che ci ha lasciato in dono Padre Pietro e che dobbiamo custodire sempre nel cuore.
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