di GIUSEPPE FEDELI –
La provocazione è un abito mentale, un tarlo che rode il tessuto esistenziale di una persona, al punto da connotarla. A fronte della provocazione – come suo contraltare – c’è sempre, a mio avviso, una “carenza” di fondo, che investe l’Eros, inteso nella sua più lata accezione: la maggior parte delle volte una fissazione libidica, dovuta a uno stato di presunta inferiorità, a sua volta derivante dal mancato superamento del “complesso di Edipo” (o di Elettra, a seconda che il soggetto sia, rispettivamente, maschio o femmina). E comunque un delirio narcisistico votato all’autodistruzione, perché quello contro cui combattere (l'”avversario”) era, un tempo, l’altro-da-sé, diventa, col tempo, (il) se medesimo. A scatenare questo sisma interiore possono anche essere le ferite subite nell’infanzia, “luogo” dove si decide della nostra vita futura. In questo caso la reazione può imboccare due diverse vie: o le ferite si sublimano attraverso la dedizione al prossimo, nel segno del dono; o, di converso, vendicandosi contro un indistinto all’altro-da-sé, per un meccanismo di compensazione, comunque frustrante, che sfocia (quasi) sempre in delirio narcisistico. Piccola ricetta da manuale: quando si è provocati, l’importante è non raccogliere la provocazione, altrimenti si crea un circolo vizioso in cui si perdono le staffe e la ragione va a farsi benedire. Il “tet a tet”, sempre acceso, quando non trasmodi in violenza fisica, è inevitabilmente votato al reciproco scacco. Bisogna allora- come predica la saggezza popolare- contare fino a dieci e far proprio il famoso verso del sommo poeta: “non ragioniam di lor ma guarda e passa”. L’indifferenza, per “peccaminosa” che possa essere, in queste situazioni è l’unica arma: e pure molto affilata…
Giuseppe Fedeli (Jeff Qohelet)
Copyright©2019 Il Graffio, riproduzione riservata