di ALCEO LUCIDI –
SAN BENEDETTO DEL TRONTO – “Piccoli crimini coniugali” è il romanzo che Marco (Michele Placido), giallista senza infamia né lode, ha in corso di scrittura e che poco piace alla moglie Lisa (Anna Bonaiuto). In realtà la contesa sul lavoro di lui è poco più che il pretesto per lasciare affiorare le piccole smagliature, gli insinuanti screzi che increspano il rapporto di coppia e che la sceneggiatura del drammaturgo franco belga Schmitt riporta con interessante evidenza. Oltre ad essere una severa, secca disamina del ménage familiare, sulla scia di Ibsen, Pirandello, Cechov, Joyce, Shakespeare e via discorrendo, lo scritto di Eric-Emmanuel Schmitt, rimaneggiato da Michele Placido, che ne firma anche la regia, andato in scena giovedì 7 marzo al Teatro Concordia, si espone ad un’acuta indagine psicologica fino a scoperchiare il buco nero della memoria.
Per un incidente casalingo, una caduta dalle scale del balcone del salotto, non si capisce quanto fortuito, Marco perde (o finge di perdere) la facoltà del ricordo. Potrebbe essere un caso pietoso, in realtà quella pirandelliana uscita da se stessi – se effettivamente voluta – diventa un espediente per guardare con una certa dose di soddisfatto cinismo, alla figura speculare del coniuge (che, questa volta non a caso, finisce per mettere in bocca o in testa al compagno, dopo il fatto increscioso, cose che Marco non si sarebbe sognato di fare o vivere). Il doppio sguardo permette lo sdoppiamento teatrale attraverso un processo di esteriorizzazione dello sguardo rispetto ai fatti tale da registrarne criticamente il loro divenire nel reticolo della narrazione.
Serve allora un punto di rottura, un uscita dall’apparentemente composto quadro delle relazioni affettive per squarciare il velo delle sottili ipocrisie, dei compromessi più o meno giocati al ribasso con i quali le relazioni coniugali avanzano a volte faticosamente o si normalizzano nell’acquiescenza delle abitudini più consumate. In realtà l’uscita dall’abitudine è sempre dietro all’angolo grazie alla (re)invenzione del rapporto e ad una complicità che il tempo non dovrebbe stancare ma rafforzare, anche – sembra dirci Schmitt – attraverso il gioco delle parti, il colpo di scena che arriva a destabilizzare equilibri consolidati, paure ed apprensioni umanissime che colgono tutti e si appiattiscono dietro il passare dei giorni: per Lisa sono le scappatelle di Marco, per Marco, invece, la possibile irruzione sulla scena di un amante, che il tempo si era comunque incaricato di smentire con i fatti.
A dire il vero, quello che preoccupa i due sono le “dispercezioni” reciproche, la possibile chiusura in una dimensioni psicologica autoreferenziale, la “caccia grossa” dell’egoismo sulle loro anime che Marco e Lisa cercano di rintuzzare con dei tiepidi ravvicinamenti in un continuo tira e molla. L’affetto rinfocolato dal tempo, la fitta rete di intese un po’ ammaccate, la sopravvivenza degli amanti ai loro stessi disinganni si incaricheranno di riportare questa commedia degli abissi insondabili, delle inquietudini nascoste lungo i giusti binari della riconciliazione degli opposti, quale è il matrimonio, smentendo la frase attribuita dallo sceneggiatore a Marco per cui la vita a due “è un’associazione a delinquere finalizzata alla distruzione del compagno/a” e senza troppo rincorrere il complesso psicanalitico delle colpe e delle “piccole morti” da convivenza.
Per dircerlo con estrema sottigliezza, misura ed eleganza recitativa – quali non vedevamo da tempo – servivano due grandi attori, due dei maggiori interpreti del teatro italiano: Michele Placido e Anna Bonaiuto.
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