di GIUSEPPE FEDELI –
È vero che da quelle parti risorgere è nell’ordine delle cose reali, dunque ogni tanto qualche tomba può restare vuota, che sarà mai? Talvolta vuote persino due, sotto lo sguardo tremendo di un angelo teutonico che addita un imperscrutabile mistero. Ma non essendo questo il caso, l’angelo racconta ben altra storia. La trama dell’Angelo sterminatore, gran Buñuel anno Domini 1962, è presto detta. O per meglio dire è indicibile, un mistero circolare, e proprio in questo si attaglia all’affaire. Una bella congrega di altolocati e altolocatesse si riunisce in palazzo e, dopo amena nottata, nessuno riesce più a oltrepassare la porta per uscire. Prigione senza sbarre ma senza via d’uscita. Nel film dura una notte, dentro le Mura leonine – con qualche sortita in flashback alla Magliana – stanno chiusi invece da trentasei anni: a raccontarsi sempre la stessa storia, a cercare sempre la stessa tomba, senza venirne a capo. Ma la cosa che più accomuna il caso metafisico-mediatico di Emanuela Orlandi al capolavoro del maestro del Surrealismo è l’incapacità comunicativa delle menti di Santa romana chiesa, che più cercano di spiegare, di chiarire, più si avviluppano nell’occultamento, e quasi nell’occultismo. E non ne escono fuori.
Se il fumo di Satana sia poi uscito dal Vaticano, dopo l’avvistamento di Paolo VI, non si è mai saputo. Ma che un angelo sterminatore in vena di castigare monsignori e cardinali stia lì, ultimo avamposto nel Camposanto teutonico, col dito all’ingiù, sopra la tomba che avrebbe dovuto essere della principessa Sophia di Hohenlohe-Langenburg, in “binubio” con la principessa Carlotta Federica di Mecklemburgo, è palese. Avrebbe, perché, scoperchiata la tomba, non si sono levati i morti. Per meglio dire, non si è trovata la morta (o presunta) oscuro oggetto del desiderio di una caccia al tesoro lunga sette lustri. Per colmo della beffa, ennesima, non si sono trovate nemmeno le spoglie delle principesse in attesa delle trombe del Giudizio. Tantoché, nel circo Barnum, ha fatto ora di diritto la comparsa persino Ira von Fürstenberg, assai sconvolta dal mancato avvistamento: “Che storia pazzesca, devo chiamare subito mio figlio Hubertus, mi voglio informare, ora sono dal parrucchiere. Voglio chiedergli se siamo parenti della principessa Sophia, a lume di naso credo di sì”. E qui, più che di Buñuel, siamo dalle parti di Peter Sellers.
La stessa scena quando scoperchiarono la tomba di Renatino De Pedis nella cripta di Sant’Apollinare e più di recente a Villa Giorgina, sotto un pavimento della Nunziatura apostolica. Cosicché, allo “sconcertante silenzio” che Pietro Orlandi, fratello, va denunciando da anni s’è sovrapposto uno sconcertante vuoto. Ma un motivo c’è, ed è un concorso di colpa. Ed è che, dopo il fumo di Satana, nei Sacri palazzi ha fatto ingresso un ectoplasma quasi peggiore: il patetico fantasma della trasparenza. Che il caso Orlandi sia una delle pagine più nere della storia vaticana recente, è certo. Come sia andata, potremmo dire con Pasolini: “tutti lo sanno, nessuno ha le prove”. Che sia stato usato per infinito tempo come un sistema di ricatti e di segnali in codice, non occorre Dan Brown per capirlo. È una fiera che “dopo il pasto ha più fame che pria”, una ignobile, diabolica farsa che grida vendetta al cospetto di Dio
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