di PATRIZIO PACI –
L’Italia è celebre per aver esportato in tutto il mondo l’Opera. Il Melodramma è nato in Italia, dove risiedono i migliori palcoscenici, i migliori cantanti ed i migliori compositori, di cui si ha conoscenza solo per quelli ottocenteschi da Rossini a Bellini da Donizetti a Verdi, da Mascagni a Puccini. Nei cartelloni dei Teatri italiani vengono inserite sempre le stesse opere: La Traviata, La Turandot, La Bohème, Lucia di Lamermoor, Il Barbiere di Siviglia… Viene completamente ignorato il repertorio di due secoli importanti come il 1600 ed 1700 che pure hanno dato alla luce capolavori del barocco fiorentino, mantovano, veneziano e napoletano. Analizziamo come sono andate le cose, partendo da molto lontano nel tempo –
Il melodramma italiano fonda le sue radici nell’Antica Grecia, dove, nei Teatri all’aperto, si rappresentavano le Tragedie con la formula del Recitar Cantando. Sul palcoscenico i protagonisti alternavano parti recitate a parti cantate, accompagnate dagli strumenti dell’epoca. Un ruolo importante lo aveva anche il coro. Anche nell’Antica Roma, seppur i Romani prediligessero gli spettacoli gladiatori, venivano rappresentate le Tragedie. (Foto Teatro Greco) Nella prima parte del Medio Evo, dopo la caduta dell’Impero Romano, il Teatro subì un lungo periodo di pausa a causa delle restrizioni della Chiesa verso le forme profane. Durante il tardo Medio Evo (1200-1300) si sviluppò una forma teatrale sacra che si svolgeva all’interno delle chiese o sui sagrati: venivano realizzate le Sacre Rappresentazioni come la Passione di Cristo, sotto forma di Dramma Liturgico in lingua greca, latina o in volgare, molte delle quali musicate e che venivano cantate dagli attori in forma declamata. Nel 1478 venne realizzata una prima rappresentazione teatrale in musica, con l’uso della lingua volgare su testo profano, una vera anticipazione di quello che sarebbe stato il Melodramma oltre un secolo dopo. Angelo Ambrogini detto il Poliziano (di Montepulciano), dopo aver prestato servizio come umanista letterato alla Corte de’ Medici a Firenze, a causa di dissidi con la famiglia fiorentina, si trasferì alla Corte dei Gonzaga a Mantova dove incontrò altri letterati e musicisti. Con la loro collaborazione realizzò, in due giorni, la rielaborazione dell’antico testo della tragedia greca La Fabula di Orfeo, tramandata da Ovidio e da Virgilio, mentre i musici di corte Bartolomeo Tromboncino, Serafino dall’Aquilano, Marco Cara e Michele Pesenti collaborarono per la messa in musica. Leonardo da Vinci ne realizzò con alcuni disegni la scenografia (la Macchina Teatrale, una piattaforma rotonda rotante con sopra una montagna di legno che si apriva e dalla quale si vedevano gli inferi dove era tenuta prigioniera Euridice), ma non si hanno tracce documentate che sia stata mai applicata alle poche rappresentazioni di questa tragedia, oscurata successivamente dalla controriforma cattolica per i contenuti in contrasto con i decreti tridentini e le dottrine cattoliche. I protagonisti cantavano con la forma musicale della Frottola monodica accompagnata dal basso continuo, alternata a parti corali polifoniche. Successivamente durante il 1500 vi furono varie forme di teatro cantato a Urbino, Ferrara, Treviso, Roma, Firenze e a Vicenza, dove in occasione dell’inaugurazione del Teatro Olimpico del Palladio venne rappresentato l’ Edipo di Sofocle, musicato in alcune scene da Andrea Gabrieli, con cori che procedevano nota contro nota in senso omoritmico, assicurando la comprensione del testo. (Foto Teatro Olimpico di Vicenza) Dal 1573 a Firenze, sotto la Corte dei Medici, presso la casa del Conte Giovanni Bardi, si riuniva una ristretta cerchia di letterati e di musicisti, la Camerata de’ Bardi (solitamente dedita alla scrittura di Madrigali per lo svago di corte), con lo scopo di far rinascere la Tragedia Greca ed il Recitar Cantando (i musicisti Jacopo Peri, Luca Marenzio, Stefano Venturi Del Nibbio, Luca Bati, Piero Strozzi, Giulio Caccini, Vincenzo Galilei, Emilio de’ Cavalieri, Jacopo Corsi, gli scenografi Bernardo Buontalenti, Andrea Boscoli e i poeti Gabriello Chiabrera, Giovan Battista Guarini, Ottavio Rinuccini). Vincenzo Galilei (padre di Galileo) studiò accuratamente le caratteristiche della tragedia e della musica dell’antica Grecia. Nel segno di una rinascita della Tragedia, Galilei sosteneva la necessità di rinunciare al contrappunto e alla polifonia, non adatti al Recitar Cantando, in favore di una composizione monodica che lasciasse spazio al canto e alla capacità narrativa del testo drammatico. Le tesi di Vincenzo Galilei furono scritte nel 1581 nel “Dialogo della musica antica et della moderna”. Le sperimentazioni durarono qualche anno e furono finalizzate alla realizzazione di 6 Intermedi, brevi Recitar Cantando musicati da Emilio de’ Cavalieri, Luca Marenzio, Jacopo Peri e Cristofano Malvezzi, con le scenografie di Bernardo Buontalenti e Andrea Boscoli. Gli Intermedi furono eseguiti nel 1589 durante gli intervalli della commedia “La Pellegrina” di Girolamo Bargagli. Il successo fu enorme, il pubblico gradiva gli Intermedi, rispetto alla commedia stessa, fatto che indusse la Camerata de’ Bardi a proseguire nella strada intrapresa. Nell’inverno 1590 – 1591 furono rappresentate a Firenze le favole pastorali Il Satiro e La disperazione di Fileno, testo di Laura Guidiccioni; le musiche di Emilio de’ Cavalieri sono andate perdute, così come è andata perduta dello stesso compositore la musica de Il giuoco della cieca, messa in scena nel 1595 a Palazzo Pitti, su testo tratto dal Pastor Fido di Giovan Battista Guarini. Nel 1598 in occasione del Carnevale fu rappresentata a Palazzo Corsi la Dafne, testo di Ottavio Rinuccini e musica di Jacopo Peri e Jacopo Corsi. Anche questa partitura è andata in gran parte perduta, sopravvivono solo due cori, tre arie ed un recitativo, mentre si è salvato il libretto di Rinuccini. Due anni dopo vennero celebrate per procura le nozze di Maria de’ Medici con Enrico IV di Francia, avvenute a Firenze il 5 ottobre 1600. I festeggiamenti si prolungarono per 10 giorni con banchetti luculliani, per un totale di 72 portate, accompagnate da musiche, spettacoli e grandi scenografie di Bernardo Buontalenti. Il giorno delle nozze, nel Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio venne rappresentata la Contesa di Minerva e Giunone di Emilio de’ Cavalieri, testo di Giovan Battista Guarini ed il 6 ottobre a Palazzo Pitti fu rappresentata l’ Euridice, testo di Ottavio Rinuccini, musica di Jacopo Peri e Giulio Caccini, opera a noi interamente pervenuta. Tre giorni dopo, durante i prolungati festeggiamenti, fu rappresentato nel Teatro Mediceo degli Uffizi il poemetto in 5 atti Il Rapimento di Cefalo, testo di Gabriello Chiabrera e musiche di Giulio Caccini, Stefano del Nibbio, Piero Strozzi e Luca Bati, partiture in gran parte perdute, tranne un solo e il coro finale di Giulio Caccini, perché inseriti nelle sue Nuove Musiche, date alle stampe nel 1601. Nasce ufficialmente un nuovo spettacolo musicale dove gli attori recitano cantando, accompagnati dagli strumenti ad arco, dai flauti e dal basso continuo (liuto o clavicembalo), l’organico orchestrale non è ancora ben definito come nel tardo barocco. Lo stile è quello della melodia accompagnata. Nel 1601 Giulio Caccini scrisse una sua versione dell’Euridice, rappresentata a Palazzo Pitti nel 1602. Nel 1604 si trasferì per un anno a Parigi con la moglie e con le figlie, raffinate cantrici, esportando il Melodramma in Francia, dove l’Opera barocca fiorì fino al culmine, decretato alla corte di Luigi XIV (le Roi Soleil) dal fiorentino Gianbattista Lulli, naturalizzato poi dai francesi come Jean Baptiste Luly. Faranno a lui riferimento musicale grandi musicisti come Marc Antoine Charpentier e Jean Philippe Rameau. Parallelamente a quello che succedeva a Firenze e a Parigi, Emilio de’ Cavalieri che in quel periodo si divideva tra la città fiorentina e Roma, il 3 settembre 1600 scrisse e mise in scena Rappresentazione di Anima et di Corpo, primo dramma in musica con testo religioso del periodo barocco che prelude alla nascita dell’ Oratorio, a cui seguiranno negli anni ’30 le opere religiose e profane del librettista Giulio Rospigliosi (futuro Papa Clemente IX), testi musicati da Stefano Landi, con allestimenti scenici di Lorenzo Bernini, come l’opera Sant’Alessio, rappresentata il 21 febbraio 1632, in occasione dell’apertura del Teatro di Palazzo Barberini, una struttura con gradinate e palchi che poteva ospitare 3000 spettatori e che contendeva al Teatro San Cassiano di Venezia il primato di primo Teatro d’Opera, ma non primo Teatro all’Italiana.
In questo periodo a Roma e nello Stato Pontificio si assiste all’inquietante fenomeno dell’impiego dei castrati nelle parti femminili, per le restrizioni imposte dal Concilio di Trento, quando Papa Sisto V aveva vietato a Roma e nello Stato Pontificio l’impiego delle donne nelle rappresentazioni teatrali, ma già dal 1471 le donne non potevano cantare nel Coro Papale (non ancora Cappella Sistina). Durante il carnevale del 1606, nel Seminario Romano, venne rappresentato il Dramma Pastorale Eumelio, testo di Torquato De Cupis, Francesco Tirletti e musica di Agostino Agazzari. Nel 1607 presso la Corte dei Gonzaga a Mantova, Claudio Monteverdi e il librettista Alessandro Striggio, riscrissero l’ Orfeo, rappresentato nella Sala degli Specchi del Palazzo Ducale di Mantova e considerato capolavoro assoluto della storia della musica. Nel 1608 Marco da Gagliano riprese il libretto della Dafne di Ottavio Rinuccini e ne riscrisse la musica per i Gonzaga. Altra opera scritta da Gagliano nel 1628 è La Flora. Inizialmente il melodramma veniva eseguito nelle sale e nei teatri di corte, in occasione di nozze sfarzose o del carnevale, ma nel 1637 a Venezia venne aperto, con la rappresentazione dell’ Andromeda (libretto di Benedetto Ferrari, musica di Francesco Manelli) il primo teatro pubblico a pagamento, il S.Cassiano e primo esempio di Teatro all’Italiana a palchi (demolito nel 1812). In platea il popolo ascoltava in piedi, mentre i palchi erano affittati o acquistati dai ricchi che portavano al seguito la cena, lanciando sul palcoscenico ortaggi vari, in caso di stonature dei cantanti. Da questo momento l’opera divenne una macchina commerciale e che perse la sua purezza iniziale, in favore dei virtuosismi dei cantanti che affascinavano un pubblico pagante sempre più esigente, rumoroso e desideroso di essere stupito. Nacquero nuove figure professionali come il librettista, lo scenografo, il coreografo e l’impresario. In questo nuovo contesto lavorava un rigenerato Claudio Monteverdi che, lasciata la corte dei Gonzaga dal 1613, divenne maestro di musica della Repubblica di Venezia, dove nel 1641 scrisse Il ritorno di Ulisse in patria, libretto di Giacomo Badoaro e nel 1642 compose l’Incoronazione di Poppea, libretto di Giovanni Federico Busenello. Parallelamente a Venezia si distinsero gli operisti Francesco Cavalli (Le nozze di Peleo e Teti, Didone, Egitto, Giasone), Giovanni Legrenzi e Alessandro Stradella (La Laurinda, Il Corispero, Il moro per amore). Negli anni ’90 del 1600 si deve al violinista e compositore Giovanni Bononcini di Modena, attivo a Roma, Bologna e Vienna, una grande produzione di melodrammi. Per tutto il 1600 il Melodramma venne rappresentato in gran parte con le tragedie greche e le grandi vicende storiche, con un grande apporto nel tardo barocco di altri grandi musicisti come Henry Pourcell (Re Artù), George Friedrick Haendel (Rinaldo) e Antonio Vivaldi che si dedicarono anche a questo genere con una grande produzione, mentre durante tutto il 1700 a Napoli, Venezia e Parigi si sviluppò l’Opera Buffa, basata sulla commedia comica, genere creato e sviluppato dalla Scuola Napoletana, creando autonomia agli intermezzi, brevi spettacoli di carattere comico, rappresentati durante gli intervalli del Melodramma. Tutto ebbe inizio a Napoli nel 1706 con La Cilla di Michelangelo Faggioli, considerata la prima opera buffa, poi i maggiori esponenti del barocco napoletano come Alessandro Scarlatti ( Il trionfo dell’onore 1719), Leonardo Vinci (La festa di Bacco 1722 ), Giovan Battista Pergolesi (La serva padrona 1733 ) breve intermezzo nel Melodramma Il prigionier superbo, Giovanni Paisiello ( Il barbiere di Siviglia 1782), Domenico Cimarosa ( Il matrimonio segreto 1792). Nel 1737 venne aperto il Teatro San Carlo, all’epoca il più grande Teatro d’Europa.
Nella seconda metà del ‘700 a Venezia Baldassarre Galuppi musicò 20 commedie del drammaturgo e scrittore Carlo Goldoni, mentre a Parigi si accese una disputa (Querelle des bouffons) tra l’opera buffa italiana di Giovan Battista Pergolesi e quella francese di Jean Philippe Rameau. In questo periodo il cantante, cui era richiesto un virtuosismo tipico della scrittura strumentale, veniva scelto per l’agilità della sua voce e per la gamma dei registri timbrici. Il compositore gli lasciava molta libertà per ornamentare la melodia, con i cosiddetti “abbellimenti”. La libertà sugli abbellimenti divenne presto eccesso di licenza. Il cantante, divenuto un po’ creatore, si sentiva legittimato a mettere in mostra soprattutto i propri virtuosismi, indipendentemente dalle esigenze musicali dell’opera. Molto più della musica e del dramma, i cantanti erano i veri protagonisti dell’opera. Esistono caricature che esagerano le grandezze fisiche dei cantanti di quel tempo. Gli evirati ebbero un grande fortuna, iniziavano la loro carriera in chiesa e divennero assai ricercati. Alcuni, come Caffarelli e Farinelli, sono passati alla storia. Con il tempo, i virtuosismi dei cantanti arrivarono ad eccessi tali da rendere incomprensibile il testo del dramma, allontanando la parola dalla musica. Sarà il musicista tedesco Christoph Willibald Gluck (1714 – 1787), insieme al librettista italiano Ranieri de’ Calzabigi, ad elaborare la riforma del melodramma. Tra i punti fondamentali di questa riforma, si ricorda che ai cantanti non era più permesso di riempire la propria partitura di fioriture, se non sono espressamente scritte dal compositore. Scomparve inoltre la differenza tra recitativo e aria, in quanto si preferì una dimensione musicale costantemente espressiva e legata alla parola. Il coro aveva funzione di personaggio. Le danze erano ammesse solo quando avevano un reale ruolo nel dramma. I cambi di scena furono ridotti al minimo e l’orchestrazione rivestì un ruolo musicale autonomo e non solo d’accompagnamento ai cantanti (anticipazione della scrittura Wagneriana). Nell’Orfeo ed Euridice di Gluck si ha appunto l’esempio di una vocalità molto più controllata, essenziale rispetto all’azione e più vicina alla metrica del testo. Anche grandi musicisti come Wolfgang Amadeus Mozart (Nozze di Figaro, Don Giovanni, Così fan tutte), Gioacchino Rossini (Barbiere di Siviglia) e Gaetano Donizetti (L’elisir d’amore), attingendo dalla Scuola Napoletana si dedicarono alla composizione dell’Opera Buffa. Alla fine del 1700 a Milano venne costruito il Teatro alla Scala, il più grande ed importante del mondo. Nel 1800 romantico, si abbandonò l’Opera Buffa e i compositori si dedicarono di nuovo al Melodramma, musicando testi tratti da romanzi che descrivevano vicende appassionate e tragiche di scrittori come Alessandro Dumas, Victor Hugo, Friedrich Schiller e William Shakespeare, scritti rielaborati dai librettisti dell’epoca. Il pubblico partecipava emotivamente identificandosi nei sentimenti dei personaggi. Tra le passioni rappresentate trionfava soprattutto l’amore (sempre infelice o contrastato), ma anche il patriottismo, la libertà, la giustizia, temi portati avanti dagli ideali del Risorgimento, del quale fu massimo esponente in musica Giuseppe Verdi, iscritto alla Giovine Italia di Giuseppe Mazzini. I compositori dediti al melodramma nel 1800 romantico furono: Gioacchino Rossini ( Italiana in Algeri, Guglielmo Tell, Sigismondo, La gazza ladra, Cenerentola), Gaetano Donizetti ( Don Pasquale, Lucia di Lamermoor), Vincenzo Bellini ( La sonnambula, Norma, I Capuleti e i Montecchi, I Puritani), Giuseppe Verdi (Aida, Nabucco, Attila, I lombardi alla crociata, Il Trovatore, Rigoletto, Traviata, I Vespri Siciliani, Don Carlos, Otello, Faltaff). L’opera era molto popolare nell’800, il pubblico che affollava i teatri proveniva da tutti i ceti sociali, le arie d’opera erano famose come le canzoni di oggi, tutti le sapevano canticchiare ed ogni città italiana aveva il suo teatro. In Germania fino al 1826 Carl Maria Von Weber contribuì allo sviluppo dell’Opera in lingua tedesca, ma nel 1850 il Melodramma subì una trasformazione per l’influenza di Richard Wagner: l’accompagnamento strumentale fu sostituito dalla scrittura sinfonica contrappuntistica per fondersi con la melodia, il piano dell’orchestra fu abbassato per far arrivare meglio in sala la voce dei cantanti e furono spente le luci in sala per concentrare meglio il silenzio e l’attenzione del pubblico sul palcoscenico. Il primo compositore a risentire di questa influenza fu il tedesco Richard Strauss. Nell’Opera francese è da segnalare la produzione musicale di Hector Berlioz e Georges Bizet (Carmen 1875) che, sotto l’influenza culturale del Verismo, si ispirò a personaggi e a vicende tratte dalla vita popolare. Agli inizi del 1900, sulla scia di questa nuova corrente di pensiero, si affermarono Amilcare Ponchielli (La Gioconda), Umberto Giordano (Andrea Chenier, Fedora), Francesco Cilea (Adriana Lecouvrier, Arlesiana), Pietro Mascagni (Cavalleria Rusticana), Ruggero Leoncavallo (Pagliacci), e Giacomo Puccini (Manon Lescaut, Tosca, Bohème, Madame Butterfly, Turandot), mentre nel resto d’Europa trionfavano le Scuole Nazionali con il Poema Sinfonico ed il Balletto. Dal punto di vista musicale l’opera verista subì l’influenza della scrittura Wagneriana e del Poema Sinfonico: la melodia non era più servita da uno sterile accompagnamento orchestrale, ma da fraseggi contrappuntistici in stile sinfonico descrittivo, a sottolineare, con particolari sonorità le azioni drammatiche, come accade nella colonna sonora. Dai viaggi in America e in Oriente furono importate nuove armonie e nuove sonorità, usate nei Melodrammi da Giacomo Puccini, abile anche a sfruttare vecchie forme musicali come il Canto Gregoriano in situazioni di preghiera sulla scena, ma anche come mezzo per analogie particolari. Il musicista toscano scrisse infatti le sue ultime 7 note, mentre componeva la Turandot, praticando una sorta di madrigalismo* su se stesso: fece coincidere la sua morte imminente con quella del personaggio Liù, usando le ultime 7 note del Canto Gregoriano dell’Ave Maria, dove il testo parla della nostra morte (mortis nostrae amen), per applicarle all’aria Tu che di gel sei cinta, dove con le stesse note Liù, pugnalandosi al ventre, intona: ….e per non vederlo più!
*Madrigalismo: la scrittura musicale segue il testo nella forma
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