di ALCEO LUCIDI –
SAN BENEDETTO DEL TRONTO – Ci aspettavamo una rappresentazione di spessore da Emma Dante, indiscussa protagonista delle scene teatrali degli ultimi anni, e non siamo stati smentiti. L’allestimento delle Baccanti di Euripide – uno dei testi della tragedia greca più controversi, impervi e sanguinari di ogni tempo – visto ieri, e in replica di nuovo questa sera, sabato 9 novembre al Concordia, con una stazione di recitazione addirittura a San Benedetto, da cui partirà il tour dell’opera, ha più di un aspetto di innovazione nella tradizione. Innanzitutto, la Dante viene da una grande scuola: l’Accademia di arte drammatica “D’Amico” di Roma dove, spinta dalla madre, si sposta per studiare teatro. La sua vita professionale, poi, è fitta di grandi frequentazioni che ne hanno irrobustito la formazione: dalla natia Palermo, con Michele Perreira, esponente e teorico del gruppo di avanguardia artistica e letteraria “Gruppo 63”, all’esperienza torinese con Roberto Guicciardini, alla scuola di canto di Cesare Ronconi dove conosce Valeria Moriconi (per la quale l’attrice deve spogliarsi di tutto, essere pronta ad abbandonare la sua vera identità e a vagare per il mondo).
Ebbene, Emma Dante alla sua Accademia è voluta tornare: raccogliendo il fiore dei suoi allievi per dare vita ad un piccolo capolavoro di arte scenica, di luci, di danza, di corporalità e climax drammaturgico. Ci è voluta tornare per lavorare su un materiale complesso, di un autore complesso, come Euripide, che ribalta completamente i concetti di sacralità ed eroismo e che ha forse dato vita – come si legge nel libretto di scena – ad «una delle più grandi opere teatrali di tutti i tempi da cui attinge gran parte della nostra cultura, dalla religione alla letteratura». Proprio questo testo – e non altri – trova nei suoi giovani attori un pathos recitativo, un ritmo serrato che li rende elementi realmente unici sul palcoscenico – ognuno con le proprie caratteristiche – nell’insensatezza di un mondo classico sconvolto nei suoi canoni.
Non a caso, poche sono le scene individuali dove parlano Tiresia (il mago cieco che avverte Penteo, re di Tebe,della pericolosità del suo gesto: il non riconoscere Dioniso, il Dio del vino e dell’amore orfico, una presenza soprannaturale) o dove si esprime l’ira tremebonda dello stesso Dioniso. Più insistente e martellanti, incalzato dal sopraggiungere della musica, impastato di un lessico autoctono – che si avvicina al siciliano rivisitato dalla Dante o ad un grammelot alla maniera di Dario Fo –, sono le incursioni del coro, sul quale del resto si sono sempre appuntati gli studi e le osservazioni drammaturgiche della regista. Un coro ringhioso, pronto ad esplodere in qualsiasi momento, aizzato da Dioniso, orgiastico, mosso dal gioco dei colori “che esplodono e narrano”, dalla scena scarna ammassata di corpi, dallo spazio così severamente spezzato e squadrato dalle luci.
Emma Dante e i suoi entusiastici allievi hanno avuto il gravoso compito di regolare i conti con Euripide, uno scrittore dissacrante, ateo – all’interno di un mondo, quello greco, intriso al contrario di misticità pagana – dove l’eroe è solo, le Baccanti non esaltano ma distruggono, la divinità non impietosisce sul destino dei comuni morali ma vessa impietosamente. E ci sono riusciti.
Copyright©2019 Il Graffio, riproduzione riservata