di SARA DI GIUSEPPE –
Compagnia dell’Accademia, studio da “Le Baccanti” di Euripide. Traduzione di Edoardo Sanguineti, regia Emma Dante. San Benedetto del Tronto, Teatro Concordia. Sabato 9 novembre 2019 h20.45 –
“… portami laggiù, dio dello strepito, dio dello strepito
euòi! Tu che guidi i baccanali…” Modernissimo Euripide, che “come tutte le avanguardie rigenera il teatro uscendo dal teatro” e paga di persona: con l’insuccesso, con l’autoesilio da un’Atene senza redenzione, da una società che non lo ama e gli tributerà omaggio tardivo e postumo, forse ipocrita. Tragedia totale viene definita Le baccanti, e ultima stagione del teatro politico: al tragediografo greco – così vicino al teatro moderno – sarebbe certo piaciuta la geniale regia di Emma Dante, il suo teatro che rilegge la classicità attualizzandola e i cui archetipi spesso utilizza nella denuncia sociale che è nerbo della sua produzione.
L’arcaismo tragico delle Baccanti le è congeniale – qui esaltato dalla luminosa traduzione di Sanguineti – e il palco popolato di giovani donne e giovani uomini, martellato da musiche pop e luci psichedeliche nulla toglie alla perfezione del meccanismo teatrale euripideo, alla violenza di un intreccio – la fantasia dei Greci è spesso truce – che fu anche atto di accusa verso un corpo sociale, quello ateniese, disgregato così come smembrato è il corpo fisico del tiranno Penteo.
Ci sono tutti, i temi eversivi di un Euripide cui Atene preferì sempre gli altri tragici: ci sono le donne, invasate dal dio e perciò libere – pur solo nell’ebbrezza dionisiaca – da un giogo sociale maschilista e opprimente, non lontano da quello che la regista rintraccia nell’humus socio-culturale della natia Sicilia; c’è il dio dalla collera vindice rivolta contro Tebe che non riconosce – unica fra le città – la sua divinità frutto della ierogamia fra Zeus e la mortale Semele; c’è il confronto col tiranno – il suo doppio – che irride il sacro e segna in questo il proprio destino tragico.
La vendetta di Dioniso – qui sdoppiato in un corpo maschile e in uno femminile – eccede la giusta misura ma non cerca giustificazione, né la natura divina può essere discussa: le principesse cadmee e con esse tutte le donne di Tebe, possedute dall’estro dionisiaco – l’oistros, l’incontenibile follia – saranno il suo braccio armato, e ciò che il dio ha spietatamente stabilito si compirà.
Alle sue menadi asiatiche e alle baccanti tebane il dio dello strepito infonde così il grido di vittorioso furore nella perdita totale di sé, mentre l’azione converge verso il suo acme: lo sparagmòs, l’orribile smembramento di Penteo ad opera dalla stessa sua madre Agave, che nella follia bacchica lo crede un cucciolo di leone.
Con il taglio della parte finale – l’esodo e il ritorno di Agave in sé, con la terrificante coscienza dello scempio e il canto di trionfo che diviene lamento funebre – la regia sceglie una messa in scena dominata dalla dirompente bacchica sensualità dell’elemento femminile: qui musica, canto, danza disegnano geometrie convulse ed esplosioni di colore, e gli oggetti anche macabri – le teste mozzate penzolanti dalla graticcia, la croce a un certo punto innalzata – sono grumi simbolici che inchiodano l’attenzione e rendono lo spettatore parte dell’incantesimo collettivo.
Le figure più caricaturali – l’effeminato Penteo, eroe (o antieroe) della miscredenza, il saggio Tiresia, il tremebondo vecchio re Cadmo – spinti dal dio al travestimento femminile per mescolarsi ai riti bacchici – non muovono il riso, amplificano anzi il connotato tragico, la ferocia collettiva indotta dalla follia divina. Nella nitidezza della costruzione euripidea Atene non poteva non riconoscere le dinamiche stesse della propria disfatta politica e morale (il predominio degli affari, le lotte intestine, la disgregazione della società e dell’individuo… Ci ricorda qualcosa?).
La Compagnia dell’Accademia e i suoi giovani eccellenti interpreti – “bravi da matti” – imprimono alla scena una carica passionale che è cifra del teatro di Emma Dante, sempre di attualissima denuncia. Per ricordarci, insieme con Euripide e duemilacinquecento anni dopo di lui, che per incenerire le case degli uomini, per “abbattere questa società putrescente non serve certo un dio, bastiamo noi” (L.Billi).
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