di VITTORIO CAMACCI –
La Pasqua di oggi è tutta basata sul consumismo. Già da febbraio nei supermercati possiamo trovare montagne di dolci a forma di agnello, colomba, campana, che insieme a tonnellate di uova di cioccolato fanno bella mostra di se sugli scaffali, snaturando profondamente il senso di questa festa. Quando io ero bambino, tutto questo non esisteva, la Pasqua era diversa, non vi so dire se peggio o meglio, ma di sicuro la felicità di gustare la “ciammella” fatta in casa dalla “commare” non era quantificabile e qualificabile con quella di una fetta di colomba di oggi. Allora, per un bimbo, le festività pasquali erano più importanti di quelle natalizie, certamente non per il contesto religioso, ne per quello consumistico, ma per un motivo essenzialmente pratico: si avvicinava la primavera e si poteva tornare a giocare all’aria aperta.
In quei mattini di marzo, il sole era già alto e dissipava la nebbia della valle del Tronto che, stando sopra la Cività sembrava un enorme lago circondato da vette luminose. Il cielo era quasi sempre di un azzurro intenso e le piante stendevano i loro rami gemmati verso il sole, che le faceva scintillare per la “guazza” della notte. Scendendo verso li “Calipicciù” si vedevano i camini fumare tra un profumo indistinto di fiorellini e di mentuccia mentre i belati delle pecore si alternavano alle voci delle persone. Questo risveglio della vita agreste mi dava una serena gaiezza piena di promesse arcane che mi metteva nell’ animo una gioia commista ad una misteriosa mestizia dolce. Ad esempio quello che allora mi interessava maggiormente era l’ appuntamento in sagrestia con don Paolo, perché quando mi aveva scelto insieme ad altri ragazzi per accompagnarlo nella visita ai parrocchiani per la benedizione delle case non era certo lo spirito cristiano che mi spingeva ad anelare quell’ incarico ma la possibilità di fare una scorpacciata di dolci.
Il rito della benedizione delle case, era allora molto sentito dalla popolazione, che aspettava con devozione questo momento, dopo aver fatto le pulizie pasquali, si faceva entrare don Paolo con i paramenti sacri, seguito da noi chierichetti e dopo aver pronunciato la formula di rito si effettuava la benedizione spargendo l’ acqua benedetta con l’ aspersorio mentre gli abitanti della casa pregavano in ginocchio perché si diceva che l’ effetto dell’ Acqua Santa era potentissimo e ” passava sette muri ” comprendendo uomini e bestie. Alla fine della cerimonia la padrona di casa donava un’ offerta al parroco mentre a noi porgeva qualche biscotto, caramelle, una fetta di ciambellone e delle bibite.
I giorni successivi si aspettava con impazienza la Domenica delle Palme per scegliere il ramo d’ ulivo benedetto più bello da portare a casa per incastrarlo in prossimità di crocifissi e immagini sacre come amuleto che per estensione portava il suo benefico influsso in tutta la casa ed in coloro che l’ abitavano. Solo il mercoledì delle Ceneri dell’anno successivo poteva essere ” ritualmente ” bruciato perché essendo benedetto non poteva essere semplicemente buttato via. Tutta la Settimana Santa era un concentrato di riti religiosi e tradizioni antichissime, ci si calava in un’ atmosfera ricca di pathos, quasi drammatica, ed ogni giornata era caratterizzata da un’ evento.
Quello più buffo che ricordo era la sera del mercoledì, quando soltanto gli uomini si facevano confessare da frati francescani venuti appositamente da fuori. La maggior parte di loro, spinti a suon di rimbrotti dalle mogli e dalle madri, si confessavano solo in questo giorno dell’ anno. Impacciati ed imbarazzati, a testa bassa e cappello in mano, si mettevano in fila davanti ai confessionali come tanti soldatini disciplinati. Poi via tutti all’osteria per giocare a carte ed imprecare come sempre.
Il Giovedì Santo era caratterizzato dalla messa Coena Domini comunemente detta della “Lavanda dei Piedi ” per dimostrare che Gesù non era venuto per essere servito ma per servire. Al termine di questa celebrazione si “legavano le campane” in segno di lutto. Non era cosa da poco perché, allora, tutta la vita in campagna era scandita dal loro suono gioioso e senza di esse si aveva un senso di smarrimento. Venivano sostituite dal suono gracchiante ed assordante delle ” mattavelle” fatte girare a forza di braccia da noi ragazzi per le vie del paese. Il Venerdì Santo si toccava il culmine della tradizione con l’antica rievocazione del Cristo Morto che si snodava per tutte le vie del paese. Noi bambini facevamo a gara per portare i “misteri” della passione mentre le bimbe più piccole facevano gli angioletti e le adolescenti le “Pie Donne”.
Il sabato era dedicato alla benedizione delle ceste pasquali piene di ogni ben di Dio: salami, uova sode, pizza salata al formaggio, ciambelle mentre a mezzanotte si faceva la Veglia Pasquale con la benedizione del fuoco fuori dalla porta della chiesa che non doveva essere acceso né con tizzoni, né con i fiammiferi ma con un’ antidiluviano accendino che don Paolo conservava gelosamente in sagrestia. Il mattino della domenica si consumava la lauta colazione pasquale che dava inizio ai festeggiamenti e ripagava di tante privazioni: coratina d’agnello, salumi fatti in casa, pizze dolci e salate con un tripudio di formaggio, uova sode, frittata di mentuccia ed erbe di campo.
Finalmente ci si riempiva la pancia e si era più contenti. Forse è da qui che proviene il detto: “essere felici come una Pasqua”. E che dire del Lunedì di Pasquetta quando era di rigore andare a “passà l’acqua”. L’ allegra compagnia di tutti i ragazzi del paese andava a saltare i fossi ed i ruscelli di montagna portandosi dietro un fornitissimo corredo di tovaglie e cestini di vivande. Sceglievamo un verdeggiante pascolo appena fiorito dando vita ad un sontuoso pic-nic in cui non mancava mai una sontuosa bisteccata. Era il nostro tempo delle mele, dei primi amori, dei bacini nascosti dietro le fratte di biancospino.
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