di SARA DI GIUSEPPE –
“Bisogna che l’Italia cominci col persuadersi che v’è nel seno della Nazione stessa un nemico più potente dell’Austria, ed è la nostra colossale ignoranza” (Pasquale Villari, 1866)
C’è qualcosa d’importante che la catastrofe del contagio ha messo a nudo in questi mesi nel nostro Paese, oltre al bubbone di una Sanità pubblica tragicamente nelle grinfie delle Regioni. Riguarda la nostra lingua, la sua condizione di malata terminale che l’elefantiasi dell’intero sistema dell’informazione mette ogni giorno sotto i riflettori, insieme con i tratti meno lusinghieri della cosiddetta identità nazionale.
Se la lingua “esprime chi siamo veramente”, la nostra dice oggi ciò che siamo diventati in qualche decennio di malgoverni e impoverimento culturale (da sempre fisiologicamente a braccetto); di disinvestimenti in conoscenza, furbescamente sacrificata al totem della “crescita”; di populismi al grido di “carmina non dant panem”. Strategie vincenti nella trasformazione, da cittadini che (un po’) eravamo, in sudditi, e a cui dobbiamo gli ultimi posti europei nelle graduatorie OCSE in fatto di literacy (competenze linguistiche) e numeracy (competenze matematiche).
Così, nella Babele pandemica del terzo millennio, mentre ci scopriamo tutti scienziati da bar con solide competenze virologiche infettivologiche epidemiologiche declinate in salsa anglofona, ci tocca come aggravio di pena l’ascolto coatto – quasi orwelliano – di politici dal bagaglio lessicale di 100 vocaboli ad esser generosi, di giornalisti in affanno di sintassi, di mezzibusti televisivi dimenantisi tra le rapide di una lingua che non controllano, risucchiati dal vortice di parole ed espressioni decentrate di senso.
Più facile comunicare per slogan, questo si preferisce fare e si fa. Viene in aiuto il pescare a casaccio, come dentro il baule in soffitta, nel disordine di tutti i possibili linguaggi settoriali che tornino utili alla bisogna; di ognuno si sceglie il peggio e se ne spalma ogni sorta d’informazione e comunicazione: dai giornali alla tivù, dai social alla conversazione privata, al cicaleccio da bar dopo-riapertura. I campi semantici fra cui spaziare abbondano, dalla guerra agli sport genere, ma quello militaresco la fa da padrone, per antica e mai perduta vocazione italiota dall’Impero romano in su.
Così di siamo in guerra – siamo in trincea – vinceremo – vinciamo – abbiamo/non abbiamo vinto grondano le cronache, la pubblicità, gli ispirati discorsi petto in fuori di chiunque abbia un microfono davanti alla mascherina (con una solida ricaduta comportale: i soldatini veri in tenuta mimetica e mitra caricati e spianati a controllare/sanzionare – come dimenticarlo? – i pensionati in gita di piacere al supermercato).
Siamo un popolo di patrioti, che volete farci, inno di Mameli – bandiera a portata di finestra o balcone – mano sul cuore – tricolore pure sulla museruola.
E se alla preistoria del contagio il mantra ”Io sto a casa”, duplicato nelle varianti “Restate a casa” e “Rimanete in casa” ha segato i nervi anche alle anime pazienti e pie, indotto qualche espressione greve pure in quelle in odor di santità, sollecitato legittime pulsioni omicide nella gente comune – non meno dell’Andrà tutto bene, dell’Insieme ce la faremo (facoltativo “un cazzo” nel finale), dei canti patriottardo/condominiali – più avanti nel tempo, poi, verbi a trazione anteriore come ripartire, locuzioni come rimettere in moto, o addirittura il mistico risorgere – più adatto alle note circostanze – hanno rubato la scena e le pagine e i palinsesti, sono dilagati nelle veline giornalistiche, hanno scatenato orgasmi collettivi in conduttori e conduttrici di talk show.
Così dopo il lockdown (il più inquietante “confinamento”, nella nostra lingua ormai straniera) è il momento dell’orgia: non quella delle movide ritornate e dei funerali oceanici e delle benedette feste mafio-religiose che in questo gioco dell’oca ci rimanderanno tutti alla casella di partenza, bensì l’orgia linguistica dell’ “abbassare la guardia” col suo contrario “non abbassare la guardia”. La cui accezione – evocatrice di ludi pugilatori e scintillii di spade – pur inefficace contro le aggregazioni di cui sopra, è musica per la parte migliore di noi, quella che non vede l’ora di unirsi a coorte e schierarsi in occhiute ronde di quartiere per stanare gli indisciplinati e gli irresponsabili e giacchè ci siamo pure il vicino di casa che sempre m’è stato antipatico.
Il meglio dei prodigi linguistici da analfabetismo di ritorno l’abbiamo avuto nelle interviste e nelle dirette televisive: dalla (s)grammatica creativa di Bonaccini con un suo raccapricciante “chiedavamo”, al fine eloquio di un sindaco qui vicino che intervistato sui provvedimenti anti-covid parla dei “sistemi migliori che meglio si calzano (sic) nel nostro territorio”… E avanti tutta a infilar perle…
Siamo un grande popolo, lo dicono anche i giornaloni e i presidenti-(s)governatori di Regione, cosicchè nulla abbiamo da temere, e metteremo in fuga il virus guardandolo fisso negli occhi e battendo con forza il manganello sugli scudi come nelle cariche di alleggerimento.
Ci manca un po’ di linguaggio, è vero, ma non si può avere tutto; e poi per arringar le folle non serve la Treccani, basta qualche slogan dal costrutto elementare, fa niente se sgarrupato, piazzato nelle zone erogene e le contagiate folle saranno tue.
Se poi qualcuno vorrà proprio fare il saputo, lo si rimetterà severamente al suo posto: come Mike Bongiorno, quando al concorrente che incauto aveva sparato un’espressione latina disse perentorio “No no, qui niente lingue straniere!”.
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