di ENRICA LOGGI –
Estate. Una nuova gioia accarezza il confine delle cose, lasciando il posto a una malinconia ricca di attese, a incontri che sognammo nel cuore della primavera, e che ora forse ancora ci mancano, ma rimangono scritti nel nostro sembiante. Voli e nidi di rondine che scuciono il cielo. E la pioggia che viene lascia una rapida scia e il ricordo di altre piogge, dove i nostri desideri toccarono gentili naufragi. Sulle ciglia del cielo spuntano raggi che rivelano un nuovo, arcano universo. La luce che si specchia nello sguardo è un’altra luce, che conserva e ritaglia il profilo delle giornate. Altri fiori ora spuntano e guardano i cigli delle strade. Fiori piccoli che nascono dall’asfalto, e sono occhi che guardano il profondo lume della nuova stagione.
Le strade moltiplicano i nostri passi, e i colori definiscono le sponde del cielo e del mare. Le nuove ore disegnano un inedito miraggio, che ricopre la nostra andatura, come un desiderio profondo nascosto dentro il nostro cammino.
Conservo nella memoria le estati passate, ricche di piccoli grandi eventi che hanno consolato il presente di allora. Nelle vesti ora più leggere trascriviamo le armonie del nuovo tempo, e conosciamo altre preghiere, altre speranze.
Lentamente lo sguardo si distende, e il paradiso della luce infiamma il giorno, distribuendo dovunque il profumo dei tigli e degli oleandri, il verde dei giardini dirimpetto alle case, i balconi fioriti e le lunghe vie che portano al mare, confinando con la riva e le basse maree, dove gli occhi catturano conchiglie, mentre sulla battigia si disegnano orme che un tempo rapido cancella.
É continua la prossimità del mare che gioca col vento e ci ricorda il profumo salino dell’acqua, mentre tutto di noi si ricompone, guardando l’orizzonte che scolora, e gli ultimi passi che muovemmo verso la sera, quando i giochi dell’acqua conquistavano ogni nuovo ideale, ogni nuova simpatia, abbandonandosi dentro il nostro sguardo come doni verdazzurri.
Tu conosci il principio dell’estate
i bocci del ficus che sfoderano spade
i fiori pallidi dall’occhio celeste
fuori da tutte le aiuole, o il riposare
di lettere dell’alfabeto
sul libro scuro semiaperto.
Non hai letto, ripensi
a un verso che ti riconosce, muto
anch’esso per l’assolare
e la distanza, l’oltremisura
che dispiega le labbra degli stagni.
O la corolla stancata dal battere
della luce, l’anima che fugge
dal luogo dove torna, in altra veste.
(Da “Di acque e segni labili”, 2000)
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