di SARA DI GIUSEPPE –
Autoctophonia Festival 2020, Teatro – Danza – Recital, Memorial Leonardo Alecci
A cura di TEATRLABORATORIUMAIKOT27 con Vincenzo Di Bonaventura, Loredana Maxia, Patrizia Sciarroni e Gruppo Teatro AOIDOS. 8 luglio – 30 agosto Martinsicuro-Parco La Pineta. Mercoledì 8 luglio, h21.30 – Sentimento del vivere (Gabriele D’Annunzio)
“Tutto sarà come al tempo lontano. L’anima sarà sempre com’era; e a te verrà leggera come vien l’acqua al cavo della mano”
(G.D’Annunzio, “Consolazione” – Poema paradisiaco, 1891)
Sono, questi, i luoghi dove un tempo maturammo sogni, dice Vincenzo: oggi teatro a cielo aperto, fatto di alberi e stelle profonde e attrezzi di scena d’antan, carro di Tespi che una stagione dopo l’altra lui, attore-autore-regista-scenografo-tecnico del suono, trasporta ovunque ci sia da poter montare il suo palco in legno di larice. «Appartengo alla vecchia categoria dei teatranti che migrano», disse una volta. E nel suo migrare a strascico restano impigliate presenze indelebili, ricordi di luoghi e persone: di maestri – come Carmelo Bene – e di indimenticati compagni di viaggio. Come quel Leonardo (“Dino”) Alecci amico e collega, e quel veneziano “Teatromodo” diretto da Giuseppe Emiliani, gruppo di sognanti-lavoratori intenzionati a divulgare poesia, meglio se fuori dai luoghi istituzionalizzati, presenze con le quali Vincenzo ha condiviso anni ed entusiasmi.
Saranno dunque – in gran parte – lavori allestiti insieme in quei tempi di leggenda, gli spettacoli del nuovo Autoctophonia Festival 2020 dedicato a lui, a Leonardo Alecci detto Dino, che un incidente d’auto si portò via troppo presto. E Vincenzo non è attore-solista, in questa serata d’esordio, ma unito alle “due voci con le timbriche più belle che abbia mai sentito”: Loredana Maxia e Patrizia Sciarroni, “sue” attrici-testimoni preziose e tenaci, incrollabili come il maestro, interpreti di rara efficacia fin da quel lontano affettuoso e folle Teatrodue Aikot da 27 posti in via Fileni a San Benedetto.
Diapositive sciabolano la penombra, immagini che hanno consegnato il D’Annunzio tribuno e vate all’aneddotica e agli stereotipi del mito; stride la fissità teatrale e sgranata di quelle pose con l’altezza visionaria della parola poetica che le tre voci attoriali attraversano e ri-creano nuova. S’avvicendano e s’inseguono, quelle voci, si sovrappongono, si contrappuntano come strumenti in un’orchestra; si fanno canto, e di quell’arte lussureggiante e sontuosa percorrono ogni intonazione e variazione timbrica, mentre il nostro circoscritto spazio di pini e cielo si dilata nel “jazz lirico” per tromba e bandoneon di Paolo Fresu e Daniele di Bonaventura, tessuto musicale di misticismo austero e mediterraneo calore.
Esiguo il pubblico, come sempre, ma invisibili nel bosco o seduti qui intorno ci sono loro: i poeti, gli scrittori, i maestri, dice Vincenzo. D’Annunzio e Hikmet, Leopardi e Majakovskij, Fo e Baudelaire, Dante e De Cervantes, e Montale, e Dimarti, e Pennacchi e Bene e gli altri: sono tutti qui, le sedie – distanziate – non basterebbero. E noi ri-conosciamo in quell’arte dannunziana “poliedrica come un diamante”, diversa e nuova questa sera, il trascorrere dal solare giovanile vitalismo alla matura sensualità fino alle esplorazioni d’ombra del dolente Notturno – “commentario della tenebra” lo definì il poeta – col suo cupo senso del finire delle cose.
Versi e prose che disegnano i chiaroscuri di un’anima inconsapevolmente pirandelliana – “V’è un acerbo piacere nell’esser disconosciuto, e nell’adoprarsi a esser disconosciuto” – nascosta dalle maschere innumerevoli del suo personaggio ma che al “Libro segreto” (confessione, memoria, laica Via Crucis) affida la trama irrisolta dei conflitti interiori, il peso dei ricordi, il “disperato coraggio” e la certezza che soltanto nella morte “avrò il viso che m’era destinato” (Credete che la mia vera maschera carnale sia questa?).
Svelano la poderosa unicità di un’arte che “ha sperimentato o sfiorato tutte le possibilità linguistiche e prosodiche del nostro tempo” (Montale) e nel farlo ha plasmato figure inimitabili – possenti e tolstoiane, o barbaricamente tragiche, o liriche e umanissime – per trovare tregua nel ripiegamento deluso, nell’esperienza del dolore, nel ricordo dolente (Il passato mi piomba addosso col rombo delle valanghe; mi curva, mi calca).
Sembrano assorti anche i pini di Aleppo, ora, al tacere delle voci e della musica; e i pavoni lì presso hanno sospeso per tutto il tempo il loro grido aspro, per ascoltare attenti. Ma abbiamo “maturato sogni” anche noi, stasera, come gli alberi e gli animali, come l’oscurità intorno pullulante di creature e di vita, mentre la Luna è prossima alle soglie / cerule: potremmo restare l’intera notte e non saremmo stanchi, e vorremmo percorrerlo ancora e ancora, quel sentiere, e ogni volta ci sembrerà novo.
“… su le scene non può aver vita se non un mondo ideale. Il Carro di Tespi, come la barca d’Acheronte, è così lieve da non poter sopportare se non il peso delle ombre o delle immagini umane”.
(G.D’Annunzio, Il fuoco, 1900)
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