Juliette Gréco, icona del costume francese. Ai funerali anche i fiori del Festival Ferré

di ALCEO LUCIDI –

Era stata per ben tre volte al Festival Ferré, sempre chiamata ed invocata dal prof. Giuseppe Gennari; una prima volta nel lontano 1987, poi nel 1999 ed infine nell’indimenticabile marzo del 2007, accompagnata dal suo inseparabile terzo compagno e musicista, Gérard Jouannest – in realtà un pianista eccelso che aveva orchestrato alcune delle più belle canzoni di Jacques Brel. In occasione della sua ultima comparsa, ero anche io tra la folla di curiosi e ricordo che ebbi la ventura di seguirla per un tratto nel passaggio dall’hotel al famoso Cinema-Teatro Calabresi (ormai scomparso assieme ad un pezzo dell’identità culturale di San Benedetto del Tronto). Il Festival Ferré che l’aveva accolta e che oggi la ricorda nel suo ultimo viaggio veleggiava ai tempi verso la tredicesima edizione; nel 1998 aveva ospitato Georges Moustaki e Pako Ibanez; nel 2002 i musicisti di Umberto Bindi (scomparso una settimana prima della sua prevista esibizione nel nostro teatro in omaggio a Ferré).

Quando tornò, era già una diva la Gréco che aveva girato il mondo e da esso aveva preso spunti e suggerimenti per arricchirsi e seguire il difficile cammino della sua vocazione professionale. Della diva aveva poco, forse ne subiva l’influsso. Per lei era importante capire e stare insieme agli altri. «Ogni volta ho incontrato gente che valeva il viaggio. Oggi mi ritrovo ricca di vita, d’amore, di memorie. Continuo a fare quanto posso nel mio campo, arrampicandomi lungo i miei sentieri di capra, rocciosi ma fioriti».

Julette, nata a Montepellier da padre corso morto a 100 anni e da una madre che portava il suo stesso nome, visse un’infanzia difficile ma circondata d’affetto. Venne internata dai nazisti, rischiò il campo di concentramento (la salvò probabilmente l’età, quindici anni), visse a pieno la stagione della rinascita e dell’engagement del dopoguerra a Parigi a fianco degli esistenzialisti (Satre, Camus, Beauvoir) e cominciò, soprattutto, a cantare nei tanti caffè letterari, jazz club di Parigi, rigorosamente targati rive gauche. Uno, addirittura, lo fondò assieme a delle sue amiche e fu un successo straordinario. Si chiamava Le Tabou, in nome di quel suo combattivo spirito di libertà e indipendenza di pensiero, di quel garbato anticonformismo che furono nella sua vita pietre miliari e fari illuminanti. Al Tabou, ma anche al Bouef sur le toit, allora uno dei ristoranti parigiani à la page, fece rivivere i testi poetici di Prévert, Queneau, Vian, anche lui un musicista ed intellettuale ecclettico, Gainsbourg e, infine Léo Ferré (Jolie Mome tra le varie interpretazioni che diede).

«Con lei se ne va – parole di Giuseppe Gennari – un pezzo monumentale della storia del costume francese». Dove la poesia si sposava alla musica, al teatro, alla letteratura, dove il gesto artistico era connaturato a quello creativo. La sua voce implacabile, pietrosa, gutturale, dalle coloriture mascoline, si rivelava però calda, in una parola, si accendeva di fronte al mistero, rivelato con animo tutto femminile, dell’amore. Si veda, per tutte, Les feuilles mortes di Montand. Oggi ai funerali della Greco sarà presente anche Maria Ferré con un mazzo di fiori offerto dall’Associazione del Festival Léo Ferré. Au revoir Juliette: rosa nera offerta al mondo.

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