di GIAMPIETRO DE ANGELIS –
Si fa presto a dire ghianda. L’immaginazione va al frutto della quercia, con il suo bell’aspetto elegante, con quella cupoletta che riveste una forma tondeggiante cilindrica. Sappiamo che è il cibo prevalente o abituale di scoiattoli, picchi, cinghiali, orsi, maiali. E fanno bene a cibarsene. Le ghiande contengono nutrienti importanti, praticamente tutto quello che serve: proteine, carboidrati, grassi, minerali e vitamine. Ma mai penseremmo che le ghiande sono un cibo da mettere a tavola. E ci sbagliamo. Nella storia, la ghianda ha avuto un ruolo determinante, soprattutto in periodi di carestia, o nelle classi più povere. Nell’antica Grecia ad esempio, ma anche in Giappone, le ghiande erano ben considerate proprio per il notevole contenuto nutritivo. Anche i romani dell’impero consideravano il frutto della quercia che, beninteso, non veniva consumato in quanto quale, ma utilizzato per produrre farina. In epoche antiche, la metodologia era piuttosto semplice e replicabile.
Un albero di quercia produce normalmente un enorme quantitativo di ghiande. Vanno raccolte con i gusci intatti e con la noce integra senza forature. Un passaggio importante è la rimozione dei tannini perché, se lasciati, il sapore sarebbe molto amaro. Per lo scopo, si espongono i semi al sole per alcuni giorni, dopo averli liberati dal guscio, per ridurne l’umidità. Dopo 3, max. 5 giorni, si fa una grossolana macinatura con un pestello. Chi era abituato a fare la farina di ghianda, dava molto importanza al passaggio successivo, il lavaggio. Da un buon lavaggio si otteneva una farina di qualità. C’erano più metodi. Il più semplice era quello di lasciare la farina in acqua corrente, come in un torrente, per alcuni giorni, fino a quando non scomparivano del tutto i residui biancastri. E poi, una bella strizzata per togliere l’acqua e si lasciava asciugare al sole o altra fonte di calore. A questo punto si procedeva ad una macinatura più accurata per ottenere una farina soffice. Il sapore? Sembra ricordi quello delle castagne. Beh, forse sembrerà strano, ma la farina ben macinata e tostata è stata utilizzata in periodi bellici, e tuttora ancora in alcuni paesi, per fare una bevanda simile al caffè. Nella tradizione contadina sarda, con la farina della ghianda si può fare dell’ottimo pane. Ma anche biscotti e torte.
Sarebbe riduttivo pensare alla ghianda solo come un cibo. É ben di più. Ha una forte simbologia mitologica e spirituale. Nella mitologia celtica aveva un ruolo rilevante. Era simbolo di immortalità e fecondità. I Druidi la mangiavano per ricavarne doti profetiche. Nella tradizione ebraica era un frutto sacro e in molti popoli antichi veniva indossata come un amuleto per una protezione in termini di salute e vigore. La ghianda era simbolo di vita, fertilità e virilità. Oltre che giovinezza. Nella Bibbia, la ghianda ricorre spesso. Se ne ciba il figliol prodigo nei Vangeli, se ne ciba Abramo il patriarca nell’Antico Testamento.
Anche nella letteratura moderna, la ghianda ha avuto un ruolo. James Hillman, il grande psicanalista americano, allievo di Jung, saggista originale ed acuto, ha costruito una vera e propria teoria della ghianda nel suo straordinario testo “Il codice dell’anima”. Una sua frase: «Ogni persona è portatrice di un’unicità che chiede di essere vissuta e che è già presente prima di essere vissuta». Nella sua teoria, l’autore afferma che in ciascuno di noi, fin dall’inizio, dall’atto della nascita, è presente un seme, la nostra ghianda, che ci ricorderà ciò che siamo chiamati a realizzare. Anche quando faremo scelte diverse, quando negheremo a noi stessi ciò che siamo, il seme non morrà, racchiuderà sempre tutta la sua potenzialità: la nostra potenzialità.
Tutto è lì, la nostra essenza, quella particolarità unica che ci appartiene e che non può essere annullata, va solo risvegliata e lasciata emergere. Quel che siamo “è”. Non può essere diversamente. La ghianda ha in sé il mistero e la bellezza della vita, come il suo albero. La quercia è possente, maestosa, robusta, essenziale, elegantemente rustica. Ed è prolifica: i suoi semi si accontentano di poco per generare nuovi alberi che resisteranno a tutte le difficoltà. Una crescita lenta, per radicare bene, per adattarsi al terreno, per vivere a lungo ed essere apprezzata con rispetto.
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