di GIAMPIETRO DE ANGELIS –
Nell’anno del centenario della nascita di Leonardo Sciascia, vorremmo ricordare il grande scrittore, oltre che giornalista e saggista, attraverso le sue stesse parole, sempre argute ed affilate, critiche e premonitrici, dirette testimoni del suo indiscutibile anticonformismo e del suo senso di libertà, soprattutto intesa come indipendenza e profondità di pensiero. A proposito di libertà, nel suo libro “Il giorno della civetta” scrive: «La verità è nel fondo di un pozzo: lei guarda in un pozzo e vede il sole o la luna; ma se si butta giù non c’è più né sole né luna, c’è la verità». Trovo che sia una similitudine perfetta per dipanare tra illusione e realtà, tra fuga e consapevolezza. Altresì, risulta estremamente lucido, quasi con rigore psicoanalitico, di parallelo sveviano, affermare: «Tutto quello che vogliamo combattere fuori di noi è dentro di noi; e dentro di noi bisogna prima cercarlo e combatterlo». (tratto dal libro “Candido, ovvero un sogno fatto in Sicilia”). Parole, queste, che fanno appello alla necessità dell’onestà intellettuale, al bisogno di limpidezza interiore, al senso di autocritica per una coscienza matura. Sciascia non ha mai derogato da questi percorsi umani.
Nasce l’8 gennaio del 1921 in provincia di Agrigento, e forse, oggi, non avremmo il grande scrittore che è diventato se non ci fossero state scelte fortunate da parte della famiglia che, per il proseguimento degli studi del ragazzo, affronta il trasferimento a Caltanisetta nel 1935. E’ qui, nella città che più di altre incide sulla sua formazione, che conosce docenti che lo introducono alla grande cultura illuminista, in modo ampio, da Voltaire a Beccaria. Da quella cultura, dai suoi principi cardine, non si è mai distaccato, pur amplificando le sue esperienze, anche professionali, occupandosi di arte, saggistica, drammaturgia, insegnamento e politica, sia attiva come deputato del Partito Radicale, sia indirettamente con i suoi articoli e i saggi. I suoi lavori letterari iniziano con “Favole della dittatura” (1950) e “La Sicilia, il suo cuore” (1952) che forse non lo soddisfano fino in fondo perché è ancora alla ricerca di uno stile più personale, tra saggistica e romanzo. Ci riprova con “Le parrocchie di Regalpetra” (1956) – che altro non è che il suo paese di nascita, Racalmuto – e “Gli zii di Sicilia” (1958). In entrambi fa esercizio in quello che diventa il suo campo principale: entrare nel costume del tempo, studiarne aberrazioni e deviazioni, partendo dalla realtà e da episodi riscontrabili, come quelli legati al mondo della mafia con le sue infinite ramificazioni.
Sull’onda di questo genere, abbiamo due tra i suoi titoli più importanti: “Il giorno della civetta” (1961) e “A ciascuno il suo” (1966). L’attività di Sciascia è immane. Scrive una grande quantità di racconti, come “Il Consiglio d’Egitto” (1963), “Morte dell’inquisitore” (1964). E ancora, “Feste religiose in Sicilia” (1965), “La corda pazza” (1970), “La Sicilia come metafora” (1979). La novità dell’attività parlamentare, come deputato prima e come eurodeputato poi, lo porta a maturare con più convinzione e una rinnovata ricchezza di sfumature il suo impegno verso le problematiche contemporanee. Di quel periodo sono “Il mare colore del vino” (1971) e “Atti relativi alla morte di Raymond Roussel” (1971). In quegli stessi anni pubblica “Il contesto” (1971) e “Todo modo” (1974). Da quest’ultimo viene tratto l’omonimo film del 1976, con un ispirato e bravissimo Gian Maria Volonté.
Sempre più affonda l’analisi nei sistemi politici, il potere, la subcultura latente, gli intrecci che arrivano ovunque. Esce “Candido ovvero un sogno fatto in Sicilia” (1977) onorando il suo maestro ideale, Voltaire. Con “L’affaire Moro” (1978) argomenta la tragica fine dello statista italiano, schierandosi dalla parte di chi era favorevole alla trattativa. Infine, senza veemenza, esprime le sue opinioni sulle ingerenze della Chiesa, come istituzione, nel mondo politico con “Dalle parti degli infedeli” (1979). Non trascura altri generi letterari, per quanto non lontani dalla sua produzione classica. Appartengono a questo filone “La scomparsa di Majorana” (1975) e “Il teatro della memoria” (1981). Negli ultimi anni della sua vita pubblica “Con Occhio di capra” (1985), praticamente un dizionario dei modi di dire siciliani, “La strega e il capitano” (1986), “Il Cavaliere e la morte” (1989), “Una storia semplice” (1989).
Muore a Palermo il 20 novembre 1989, ancora giovane d’età, per gravi complicazioni della malattia che lo affliggeva già da un po’. Sciascia lascia di sé, oltre alle opere, una incredibile coerenza intellettuale, controcorrente e con quel tocco di humour inquieto, di stampo pirandelliano. Pur pessimista, pur sfiduciato nel “sistema”, da illuminista qual era continuava a nutrire il senso della giustizia e, forse, sottilmente, della speranza.
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