di ALCEO LUCIDI –
SAN BENEDETTO DEL TRONTO – Il 3 febbraio è stata festa per la nostra comunità sambenedettese. Una festa magari non a tutti nota – giovani soprattutto – ma ugualmente importante e profondamente sentita. Il 3 febbraio, infatti, si ricorda la figura del canapino (o funaio) posto sotto la protezione di San Biagio, il santo del giorno. Quella dei filatori delle reti di canapa, che venivano poi intrecciate con sapiente cura dalle donne dei pescatori, sedute sull’uscio delle case basse (a due piani) del mandracchio (attuale Via Laberinto) o nelle strade del centro storico tra la torre campanaria e Via Volturno, è stato un mestiere duro.
Al grido di “Vota cì” i funai scandivano il ritmo delle giornate di lavoro attorno alle grandi ruote dove la canapa veniva svolta e lavorata attraverso un sistema di carrucole poste a una certa distanza l’una dall’altra. Il lavoro senza soste, serrato, implacabile, coinvolgeva anche i ragazzi, ancora adolescenti, che purtroppo non avevano l’opportunità, spesso, di andare a scuola pur di aiutare le famiglie in stato di bisogno e veniva svolto all’aperto, con il caldo canicolare dell’estate o tra i rigori dell’inverno. Di solito in riva al mare, o maggiormente, lungo il corso del torrente Albula che si riempiva così di voci, del sudore e della fatica di intere generazioni di sambenedettesi.
Nel tempo, il comparto lavorativo crebbe al punto da raccordarsi saldamente con l’industria della corda la quale, soprattutto con l’avvento della pesca oceanica dagli anni Sessanta e con il moltiplicarsi dei motopescherecci a motore – nati proprio a San Benedetto all’inizio del XX secolo grazie all’intraprendenza del curato della Cattedrale, Don Sciocchetti –, diede una spinta decisiva alla costituzione di quella flottiglia di natanti che riuscì a solcare i mari delle coste dell’Africa Occidentale (Mauritania e Marocco), rivaleggiando con le meglio equipaggiate imbarcazioni giapponesi. I funai furono una delle colonne portanti dell’economia della città rivierasca e contribuirono allo sviluppo economico del settore ittico e navale del territorio stingendo legami, saldando importanti collaborazioni, accompagnando le dinamiche di crescita dell’intera società locale.
Molti dei nostri maggiori poeti e letterati scrissero dei funai, della loro condizione difficile, dello spirito di abnegazione e sacrificio che li animava. Tra di loro: Bice Piacentini, Giovanni Vespasiani e, anche, l’ultimo esponente della nostra tradizione lirica vernacolare, ovvero quel Giovanni Quondamatteo di cui proprio il primo febbraio si sono ricordati i sette anni dalla scomparsa. Anche Quondamatteo aveva girato la ruota da piccolo (questo il ruolo che si riservava spesso ai bambini), così come aveva solcato molti mari con le barche del posto e, proprio per questo, diede vita attraverso la sua opera ad una delle più belle, appassionanti e tangibili testimonianze di luoghi e personaggi di una civiltà incentrata attorno ai mestieri del mare.
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