di ALCEO LUCIDI –
Esistono uomini che non ti stancheresti mai di ascoltare e di assecondare, tante le esperienze, i saperi, le vicende di vita, sociali e culturali raccolte e lasciate fruttare. Gabriele Cavezzi era uno di questi uomini, attenti, garbati, accoglienti e sorretti da una curiosità indomabile per la conoscenza. Per Gabriele furono i fatti storici e storiografici, ma non solo, riuniti attorno allo sviluppo di San Benedetto del Tronto, da piccolo borgo marinaro, agli albori del ‘500, senza una prioria caratterizzazione sociale ed economica, a secondo porto peschereccio più importante d’Italia dopo Chioggia. Dentro passano i grandi sviluppi storici dell’Ottocento, l’uscita dall’isolamento e la sudditanza politica verso i rispettivi domini imperiali e pontifici, l’evoluzione antropica – avrebbe detto lo storico Cavezzi – della civiltà sambenedettese e la sua apertura verso il progresso tecnico e materiale, le tragedie del mare che hanno accompagnato questo fenomeno di emancipazione proseguito tumultuosamente per buona parte del Novecento e sfociato nella pesca oceanica, da lui indagata in una miriade di lavori e contributi.
Cavezzi è stato un ricercatore attento e premuroso, sensibile e solidale con la propria comunità, sempre disponibile a rivedere il proprio metodo di indagine per adeguarlo agli scopi e i temi del suo inarrestabile processo di scoperta e di restituzione dei fatti.
Veniva da una scuola – al pari di Ugo Marinangeli o Giovanni Guidotti o Otello Bizzarri – di storiografi illustri che avevano dato già lustro con i loro contributi alla tradizione di studi locali: Enrico Liburdi, ma anche lo storico dell’economia Sergio Anselmi (i due capisaldi ed antesignani). Le loro ricostruzioni erano fedelmente badate sulle fonti e seguivano precise indicazioni scientifiche; tutto era vagliato e nulla affidato al caso.
Negli anni, e dopo il pensionamento come dirigente della locale Asl, quell’approccio di Gabriele Cavezzi alla storia era divenuto costitutivo di un modo di essere, di una precisa visione e organizzazione della vita, di una missione culturale da compiere. Lo dimostrano la quotidianità dell’impegno, le generose pubblicazioni, la costruzione di legami culturali con altre realtà geografiche, come il sodalizio con la città di Spalato, dove Cavezzi venne insignito del più alto riconoscimento alla carriera (“La Targa d’Oro”), così come successe da noi con il Gran Pavese Rossoblù, la donazione alla biblioteca civica di San Benedetto di un fondo sulla civiltà del mare, al cui allestimento e alla cui potenziamento aveva contribuito e che continua ancora ad essere meta di studiosi da ogni parte d’Italia. Quella stessa raccolta bibliografica che ci auguriamo possa essere potenziata, magari posizionata in un luogo più consono, che a noi pare essere – e non solo a noi – il “Museo del Mare”.
Segnato da un fervente attivismo si dedicò anche allo sport, essendo stato tra i fondatori del sambenedettese di atletica leggera, oltre che un apprezzato allenatore e dirigente.
A tutto e a tutti aveva trasmesso il suo spirito contagioso di grande ecumenismo (se mi si passa il termine). Nella nostra civiltà marinara, in effetti, vedeva la prosecuzione di una Koinè di mondi ed espressioni, affacciati anche dall’altra parte dell’Adriatico, sulla costa slava, nel difficile tentativo di riequilibrio di rapporti politici e diplomatici, incrinati dalle incomprensioni, mentre nel rapporto con gli altri, dallo studioso al semplice cittadino, sempre più, un’occasione imperdibile di crescita personale e collettiva.
Lo testimoniano i tanti gemellaggi promossi con le nutrite comunità di sambenedettesi all’estero (Chicago Heights, Viareggio, Mar del Plata) e i continui confronti che ne nascevano, tanto da alimentare il lavoro, tra gli altri, dell’etnografo e dell’antropologo che si piegava sugli usi, i costumi, le storie della popolazioni rivierasche e delle comunità sociali che del mare hanno fatto una loro ragione di vita, attraverso, soprattuto, una delle sue opere proditorie, la rivista “Cimbas”, una imponente raccolta di informazioni storiche.
La sua eredità costituisce un lasciato da mantenere e diffondere, ma bisognerà in qualche modo essere all’altezza della grande memoria che lascia.
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