di GIAMPIETRO DE ANGELIS –
Quando si parla di Edvard Munch, il pensiero va rapido al suo più celebre dipinto, “L’Urlo”, che poi non è un singolo quadro ma una serie di quattro versioni. L’Urlo ha carattere fortemente autobiografico, tant’è che lo stesso Munch, nel voler spiegare la sua opera, scrive una bella pagina che inizia così: «Una sera camminavo lungo un viottolo in collina nei pressi di Kristiania – con due compagni. Era il periodo in cui la vita aveva ridotto a brandelli la mia anima». Lo spettatore non resta impassibile, L’Urlo cattura il suo sguardo, portandolo nella propria spirale. lo avvolge e lo catapulta nel vortice di quel paesaggio che si contorce insieme all’esile figura umana. Eppure, potremmo dire che non tutto è come sembra. Troppo facile, troppo scontato dire che Munch manifesta solo il proprio malessere. Lo fa, certo, ma va oltre. Il dipinto sorprende, con quella drammatica deformazione dell’insieme, dove però qualcosa resta fermo e stabile, imperturbabile. La strada con il suo parapetto, ad esempio.
E la strada non è un simbolo casuale. È qualcosa di essenziale, delinea un percorso, un andare e tornare. Non è un caso che resti salda all’interno di quel turbinio impazzito. E poi ci sono le due persone, un poco distanti, a ricordare la normalità, forse il distacco, comunque estranee a quel fuoco di colori, alle onde del cielo, come a dire che, per quanto si possa esprimere con forza un’emozione, questa resta individuale. Alcuni critici d’arte hanno inoltre ipotizzato una interpretazione diversa da quella accreditata. Quello che sembra un urlo di disperazione, talmente forte da contorcere il volto e l’intero corpo, insieme all’ambiente circostante, potrebbe essere un urlo estatico, l’espressione esagerata della meraviglia alla vista di uno spettacolo unico, un tramonto infuocato come non mai.
Per comprendere Munch, possiamo trovare un utile indizio in un altro brano tratto dal diario personale: «Ho dovuto percorrere uno stretto sentiero lungo un precipizio. Da un lato le profondità del mare erano insondabili. Dall’altro c’erano i campi, colline, case, persone. Qualche volta ho lasciato il sentiero per buttarmi nel mondo vivente dell’umanità e lottare con esso. Ma sempre ho dovuto ritornare sul sentiero sul ciglio del precipizio». Il sentiero! Per quanto incerto, fors’anche rischioso, tentacolare, resta la certezza sotto i propri piedi. Lasciarlo per il mondo esterno, quell’umanità pronta al distacco?
L’Urlo racconta tutto questo. Sì, è anche disperazione, ma supera il dolore e il rammarico. Quell’urlo afferma, ristabilisce regole personali, chiama a sé le forze della natura, solo a sé, tant’è che le persone non se ne accorgono, mantengono il loro cliché di normalità incolore e inanimata. Nel dipinto, tutto quello che è Natura – cielo, mare, terra – entra in gioco: «E sentivo che un grande urlo infinito pervadeva la natura». È un coinvolgimento che stabilisce l’unione, a livello inconscio, simbolico e filosofale. L’uomo che urla si riappropria d’un destino, attesta l’appartenenza a quel mondo, lo fa proprio. Non a caso, ad essere esterna al coinvolgimento è una parte che non appartiene alla natura: la strada, che dovrà adempiere – muta – al suo compito, ricondurlo a casa (con il suo significato di protezione).
La vita di Edvard non è stata facile. Fanno parte del suo percorso una lunga onda di depressione e paure.
Del resto, poteva essere diversamente? Da giovane ha dovuto sopportare lutti terribili. Dapprima la mamma, quando lui aveva solo cinque anni. Poi la sorella, pochi anni dopo. Non bastasse, quasi l’intera famiglia, ormai immersa nella tristezza e malinconia, inizia a soffrire di turbe psicologiche. Ancora pochi anni e anche un fratello se ne va, mentre la sorella Laura entra in una crisi psichica che la porta alla follia. Ce n’è abbastanza per rendere la vita un incubo. L’arte diventa il rifugio prevalente, come l’alcool, e anche se oggi tutti conosciamo “L’Urlo” come l’opera simbolo dell’espressionismo, la produzione di Munch è enorme, così come straordinario è il suo curriculum artistico.
A lui interessavano le sfumature dell’anima, e ogni oggetto, figura, espressione, dovevano servire a svelare e raccontare gli stati d’animo e una certa melanconica visione: «In generale l’arte nasce dal desiderio dell’individuo di rivelarsi all’altro. Io non credo in un’arte che non nasce da una forza, spinta dal desiderio di un essere di aprire il suo cuore».
Ecco, nella frase c’è il sunto di tutto. Per quanto sia forte la depressione, per quanto devastante possa essere il pessimismo, in quelle parole troviamo un’apertura e L’Urlo, a mio avviso, va visto come un richiamo che non può e non deve essere la semplice espressione del dolore.
Gli ultimi anni della vita li passa nella sua proprietà di 45 ettari, continuando a produrre moltissimo fino alla fine, gustando anche il piacere della vita agreste, e dedicandosi ad una serie di nudi femminili. Quando muore, a 80 anni compiuti, i familiari fanno la conta delle opere stipate nell’abitazione-atelier: oltre 1.000 dipinti, più di 4.000 disegni e un numero enorme di stampe. Tutto viene lasciato in eredità alla città di Oslo e visibili nel Munch Museum.
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