di ELIANA NARCISI (ELIANA ENNE) –
TORINO – Cantautore, scrittore, conduttore televisivo, fondatore e voce degli 883 insieme all’amico Mauro Repetto, dal 2004 ha intrapreso la carriera da solista, più di sette milioni di dischi venduti, Max Pezzali approda all’Auditorium del Salone del Libro di Torino con “Max 90. La mia storia. I miti e le emozioni di un decennio fichissimo” (ed. Sperling & Kupfer). «Scrivo canzoni semplici che non richiedono capacità compositive importanti, tre minuti, tre strofe, due ritornelli, ma è in questa semplicità che sta la loro forza. Ho iniziato da ragazzo, ero timido, anche un po’ sfigato, non nel senso di sfortunato: pativo quel sentirmi inadeguato che inevitabilmente conduce a metterti nelle situazioni complicate con le tue stesse mani. Davanti agli ostacoli il cervello porta a cercare una via di fuga, ecco, a noi sfigati succede l’esatto contrario, quando vediamo l’ostacolo ci andiamo proprio contro. Sono rimasto così, ho solo trovato il modo per fare pace con la mia condizione e utilizzarla, ad esempio, per sviluppare l’autoironia, per non giudicare gli altri, per essere meno assoluto e più aperto alle possibilità della vita.»
Dagli esordi come autore («abbiamo firmato il primo contratto con la Warner per scrivere dieci canzoni l’anno e non ci eravamo neppure accorti della penale di cinque milioni in caso di mancata consegna, scrivevamo sempre ma nessuno cantava mai le nostre canzoni») all’incontro con Claudio Cecchetto («gli abbiamo lasciato una cassetta a Radio Deejay, lo facevano centinaia di persone ogni giorno, perché mai avrebbe dovuto ascoltarci?»), dalle difficoltà degli esordi («mia mamma voleva che trovassi un impiego fisso, mio padre mi voleva a gestire il negozio di fiori con lui, nessuno credeva che ce l’avrei fatta, nemmeno io») al grande successo de Hanno ucciso l’uomo ragno («ho scritto il testo dopo aver mangiato un panino pancetta e tabasco, sarà stato lì che ho iniziato a soffrire di reflusso esofageo»). Max è un fiume in piena, racconta aneddoti e retroscena di tutti i momenti più significativi della sua vita con autoironia, non si sente una star, non ha consigli da dare, solo emozioni da condividere.
Ha cantato la vita di provincia di ragazzi senza cellulare che si incontravano al bar o in sala giochi, in tasca il sogno dell’America, un deca e la certezza che il sabato sera si sarebbe concluso con un nulla di fatto. «La grande città per noi era un sogno. – spiega Pezzali – Andavamo a Milano convinti di essere vestiti alla moda e invece indossavamo cose vecchie di almeno due anni, nei locali non ci facevano entrare, le ragazze erano bellissime e non ti cagavano. Non ero bello né palestrato, venivo dalla periferia di provincia ma neppure da quella estrema perciò non potevo giocarmi la carta del dannato che vive nel ghetto. Non avevo l’allure della rockstar, ero un tamarro. Però sapevo parlare, parlavo tanto. Diciamo che a volte sono riuscito a rimorchiare per sfinimento. Solo che poi, quando parli troppo, sei l’amico perfetto. Ecco, è così che ho scritto La regola dell’amico.»
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