di LUCILIO SANTONI –
Le parole possono portare a una guerra. Le parole possono convincere masse di persone che da qualche parte nel mondo vi è stata un’offesa così grande da poter essere riparata solo con la forza. Le parole possono aizzare popoli interi, gli uni contro gli altri. Possono convincere che il bene deve prevalere, costi quel che costi, senza però sapere precisamente cosa sia il bene. Mi sono allora chiesto quale debba essere il compito di uno scrittore, di uno che lavora con le parole. Mi sono chiesto se non sia il caso di assumersi delle responsabilità. E allora mi viene in soccorso il grande Elias Canetti che, in “La coscienza delle parole”, scrive: «Se io fossi davvero uno scrittore dovrei essere capace di impedire la guerra». Ecco la responsabilità di cui parlavo. E poi anche, però, la fiducia nel potere della parola. Pertanto, proprio in base a tale fiducia, Canetti aggiunge e conclude: «Alla situazione che ha poi reso la guerra davvero inevitabile si è arrivati per mezzo di parole, parole su parole usate a sproposito. Se così grande è il potere delle parole, perché esse non dovrebbero essere in grado di impedire la guerra?». Si tratta di una domanda, senz’altro, non di una certezza. Ho pensato, allora, che il compito di uno scrittore e, forse, di ogni uomo di buona volontà, è quello aggrapparsi alle domande per smontare le false certezze e, in fin dei conti, riflettere sulla condizione umana, che è uguale in ogni angolo della terra. In definitiva, il buon uso delle parole si rivela l’unica arma possibile. Dictis, non armis: il motto latino come fonte di saggezza.
Copyright©2022 Il Graffio, riproduzione riservata