di GIAMPIETRO DE ANGELIS –
Quando una persona diventa iconica sembra strano sentire la notizia della sua morte. È questo l’effetto che ha avuto su di me ascoltare che Mary Quant se n’è andata dal mondo, questo mondo, a 93 anni, pochi giorni fa. Il suo nome era diventato famoso negli anni ’60, per molti mitici e non solo per i movimenti studenteschi legati al’68. Erano mitici perché c’era nell’aria il vento del cambiamento, a più livelli. Era nell’aria, e nell’anima dei giovani, il bisogno di un mondo nuovo, meno ingessato e meno borghese, meno indottrinato e meno obbligato. C’era un forte fermento, un’energia creativa mai vista prima. Non tutto ha funzionato, ovviamente, come in ogni rivoluzione culturale. Non bastava essere “figli dei fiori” ed avere capelli lunghi, non bastava sognare e rifiutare, non bastava dire “no” al sistema, occorreva anche costruire ed avere una progettualità a lungo termine.
Beh, laddove altri hanno fallito, in toto o in parte, lei no, lei ha letteralmente cambiato un certo mondo, un modo di essere e sentirsi donna. Come altri hanno giustamente scritto, Mary Quant, allora giovanissima stilista inglese, non ha semplicemente accorciato le gonne, lei ha allungato la “visione”, ha cambiato i paradigmi, ha aperto le menti e osato sfidare. Mostrare le gambe non era vanità, in quella fase storica, era ben di più. Era riconoscersi, come donna, più autonoma e determinata, indipendente e sicura di sé. Per chi è giovane oggi può essere difficile comprendere di cosa stiamo parlando. Era il 1963. Chi scrive era un bambino di 8 anni. Ancora non sapevamo che l’uomo sarebbe andato sulla Luna pochi anni dopo. Nella maggior parte delle famiglie non c’era neanche il televisore, tantomeno un’automobile. In pochi avevano il telefono, quello fisso analogico beninteso: attaccato al muro come un quadro prezioso. Rare, nelle case, le lavatrici, ancor meno gli aspirapolveri.
Assenti altri confort attuali. Inesistenti i computer. Prima del ’63 le gonne e gli abiti femminili erano sempre sotto al ginocchio, non si usavano i pantaloni. La strada dell’emancipazione femminile era ancora tutta in salita. E lei che fa, la giovane Mary? Si rende conto che c’è un forte bisogno di riscossa. Sente che le donne, le sue stesse clienti, vogliono un segno, un simbolo da mostrare, una sorta di distintivo che segna un passaggio, da un ieri ad un nuovo oggi. Mary ha l’intuizione e la sua modella preferita, Twiggy, l’indossa per la prima volta. È la minigonna, chiamata così in quanto corta oltre quel limite rispettato fino al giorno prima: il limite del ginocchio, come fosse, il ginocchio, la demarcazione tra un mondo prettamente maschilista e patriarcale e uno più libero, creativo e fattivo, capace di reagire, di interrogare e interagire. Un mondo dove ognuno è ciò che è.
Il successo è planetario, almeno nella cultura occidentale, ma non solo. Sono trascorsi 60 anni esatti da quell’evento. Le ragazze di allora oggi sono delle nonne con i loro tanti ricordi e il privilegio di essere state le prime ad andare in giro fiere di essere donne e di poter vestire come volevano loro, tra alti e bassi, con la parità di genere ancora da conquistare con le sue tante lacune ma la strada era tracciata. La minigonna non era, e non è, solo un indumento, anche se va detto e riconosciuto che l’aspetto rivoluzionario, fortissimo allora, è sfumato nel tempo. Ma va riconosciuto a Mary Quant un merito storico. Considerarla solo una stilista sarebbe riduttivo.