di MARIA LENTI –
Giorgio Voltattorni M., “L’araldo clandestino. Poesie scelte 1976-2018”, Testimonianza di Filippo Massacci, Venezia, Il Pozzo Nuovo 2023 –
Si può scrivere di un libro di poesia, questo di una intera vita di Giorgio Voltattorni, di averlo letto – in tutte le sue non poche, ma non inutili, pagine – con il piacere di sentire le parole scendere nel corpo, entrarvi lievi pur nella drammaticità del loro dire e del loro significare? Forse lo stesso autore gradirebbe un’analisi critica su come si compongono e sviluppano i testi, nelle loro parole e strofe e figure retoriche e metafore e rimandi e nascondimenti e narrazioni apertis verbis di tenore critico? Forse una libera, cioè sciolta, impressione di lettura non può essere? Forse la sensazione necessiterebbe (come necessita, lo so, a fronte di una lettura soggettiva a parte existimatoris) del riscontro testuale? Le domande-riserva potrebbero continuare all’infinito. Ma io mi prendo l’onere delle mie righe…
Giorgio Voltattorni (1959) inizia giovanissimo a scrivere poesie per l’urgenza di moti interiori provocati dall’incontro con un mondo reale inappartenente a sé causa la diversità tra la propria visione e il proprio desiderio mai riscontrati nella sostanza di ciò che lo circonda: persone e cose, eventi e avvenimenti, la storia personale estranea alla possibilità di essere calata nei canali stabiliti a priori. Con in più, nel suo profondo, il pungolo della morte non tanto nella presenza reale quanto nell’essenza della fine di ciò che si vive: l’amore o l’illusione, l’età innocente, la conoscenza imperfetta, il giorno mai ripetuto pur avendo sempre lo stesso volto epicorico, l’apparenza dei luoghi e la sostanza del viaggio i cui conti non tornano mai come nell’immaginario. E, appunto e in primis, l’immaginario che in Giorgio Voltattorni non si ferma all’età giovane arrivando, senza interruzione, all’oggi di un’età matura.
Qui interviene l’altro aspetto, dell’arte, dell’incisione che, salite all’evidenza dall’impeto creativo e dalla lezione di un Maestro come Valeriano Trubbiani, fermano sulla carta e poi sotto il torchio i segni che determinano il vivere stesso. L’una e l’altra, poesia e arte, germinano da uno stesso punto giungendo a nodi necessariamente diversi ma non opposti: nella poesia un sé cerca dentro sé stesso le proprie ragioni e le lascia alla riga del loro essere riprese a conferma di un pensiero; nell’arte un sé cerca dentro sé stesso le proprie ragioni e le rimanda alla riga di una sconferma del fuori. (Ma, discorrendo qui di poesia, lascio ad altro momento il mio sguardo sull’arte di Giorgio Voltattorni).
Ecco, allora, il sentimento poetico dell’essere defraudato di un luogo (peraltro inesistente).
Ecco l’inesorabilità del segmento nascita-morte (dell’essere umano e di ogni cosa vivente, pur inanimata). Ecco quel portare nei versi la propria epocalità, non amata seppure non indagata nelle cause del suo suscitare il non-amore. Ecco l’allusione erotica come un esserci di felicità che, nell’afferrarsi all’attimo di piacere, sente subito il suo spegnersi. Ecco il senso di solitudine e il ripetuto indizio di battiti corporali a segnare la vivenza. Ecco l’ironia e la vivacità dell’osservazione e la liricità intensa.
Ecco i “ma” e i “se”…
Ecco i “diritti” e i “rovesci”:
“Se incautamente / la premessa è solo una promessa / impossibile a mantenersi, / fors’anche per imprevisti incesti / di raffinati lemmi, / oscuri inciampi di una remota sorte / troppo avvinta ai tomi, / solo fanfaluche e in rima sono i versi, / forbito e ozioso cicaleccio / di sfaccendati conversi / nel via vai dei nomi, / nell’aprirsi e chiudersi di fragili porte / e vacui portali. // Diritti subito negati dai Rovesci / mutano il senso delle parole vuote , / le vestono di variopinte ali, / dorato pulviscolo o coriandolo mettono / veli su veli alle cosce sfatte / di boriose matrésse che belle sembrano / alla luce soffusa d’un altro lucernario / o lume. // E invece… / E invece la vita-verità vera / corre portata da ben altro fiume, / sotto altri ponti di bellezza / silenziosa incede / e al mattino si rivela / esatto filo d’erba / che prima non c’era, / spuntato nel ronzio di un nascosto letamaio.” (“Se incautamente”, p. 247)
Ecco la negazione volta in affermazione, il celato che svela, lo svelamento ad inizio del cammino-percorso (realtà-finzione; immaginario-reale; desiderio-caduta) ogni volta affidato alla voce aperta dell’araldo alla ricerca della voce clandestina. Ecco, infine, l’araldo clandestino.
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