Quando ti chiami Jane Birkin

Jane Birkin (foto di Michel Ginfray - Getty Images, fonte: sito Harper's BAZAAR)

di GIAMPIETRO DE ANGELIS –

Chiamarsi Jane Birkin significa considerare un’epoca, l’equivalente d’un ritratto antropologico di una fase in cui il divismo di molti personaggi in certi ambienti si scontrava con le novità del movimento del ’68 e di quello hippy. Ed è per questo che preferiamo una riflessione che non sia nell’immediatezza della morte avvenuta giorni fa, il 16 luglio, a 76 anni. Non se ne è andata un’attrice o una cantante, se ne è andato un simbolo. La ricordiamo in film come Blow-Up di Antonioni, La piscina con Alain Delon, Assassinio sul Nilo, Je t’aime moi non plus e molti altri. È probabile che altre attrici sarebbero state altrettanto brave, forse anche di più. Ma non erano, non sono, Jane Birkin. Basti vedere certe foto, spesso in bianco e nero come quelle di fine anni ’60. D’una bellezza travolgente, vestita di “nulla”, con un sorriso disarmante, sia che indossasse un jeans sia che avesse un abito. Ogni cosa, su di lei, aveva un valore aggiunto.

La minigonna era stata inventata da pochissimo ed ecco che lei la reinterpreta. Sembra sia stata la prima a mettere mini abiti inguinali totalmente trasparenti su seno nudo. Eppure, sembrava del tutto naturale. Occorre personalità per mantenere dolcezza e innocente spavalderia nell’apparente provocazione. Le piaceva essere prima a Jane, anche senza volerlo essere. Non cercava il piedistallo. Ancora oggi, le parrucchiere di mezzo mondo mostrano alle proprie clienti, come esempio di frangetta, le sue foto: la frangia di Jane Birkin. Semplice, perfetta, di facile gestione, praticamente un modo per sentirsi più giovani e scanzonate.

Un caso a sé è la canzone Je t’aime moi non plus, uscita molto prima del film omonimo e che ha consacrato Jane alla notorietà come cantante e personaggio di riferimento. Sappiamo tutti cosa rappresentò. Era il 1969 e Serge Gainsbourg, musicista, attore, regista, e suo compagno di vita per un lungo periodo, pubblicò quella canzone che interpretava musicalmente un rapporto sessuale. Successo planetario, oltre cinque milioni di copie vendute, con scandali e censure a ripetizione, soprattutto da noi, ma anche in Inghilterra. Con quella interpretazione musicale, tecnicamente impeccabile, Jane raggiunse un altro primato. Quello che probabilmente molti non sanno è che quella stessa canzone era stata realizzata un anno prima anche con Brigitte Bardot, ma quella versione non uscì sul mercato. Venne pubblicata solo un ventennio dopo.

Tra i “vezzi” c’era il non utilizzare borse da donna, ma cestini di vimini, soprattutto negli anni ’70, con degli accostamenti che, se non fosse stata Jane Birkin, potevano apparire azzardati. Come nell’esempio dell’abito di cui sopra: lei, la sua insostituibile frangetta, il cortissimo vestito trasparente e il cesto di vimini. Lo dicevamo, occorre personalità. È la condicio sine qua non, è la necessità, il vero primato che a poche – e pochi – riesce: non scimmiottare nessuno, osare senza osannare, avere nell’essere e non il suo contrario.

Penso si possa dire che era diva a sua insaputa. Lo era per come la volevano i giornali del tempo, ma non lo era in se stessa. Ogni aspetto, provocatorio fin quanto si vuole, era semplicemente parte di un modo d’essere, disincantato e con un concetto di libertà semplice. Nel corso di una intervista al magazine D di Repubblica aveva dichiarato: «Mi assumo per intera la responsabilità di essere me stessa, di essere Jane».
È la sintesi perfetta.

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