di GIAMPIETRO DE ANGELIS –
Un libro va oltre la storia che racconta. È interazione, un continuo rimando al proprio vissuto, un richiamo: una visione. Nella costruzione dell’aspettativa che evolve di pagina in pagina c’è quel particolare film che solo un libro può evocare insieme al lettore. E questo percorso inizia già dal titolo e dalla copertina. “L’uomo che parlava all’universo” di Cinzia Perrone, Atile Edizioni, ci riesce benissimo. Accoglie il nostro bisogno di immaginifico, lo prende per mano e lo porta lontano, oltre le frontiere dell’ovvio, del certo, dell’area comfort. Non rivelerò la trama perché non va tolto al lettore-spettatore la sorpresa che si snoda di capitolo in capitolo, si arricchisce di scena in scena, completandosi nel finale che non ci si aspetta, né può essere sospesa una certa emozione che cresce perché, in qualche modo, nella lettura incontriamo noi stessi in più di un passaggio. E se il libro, come si diceva, va oltre la storia che racconta, va anche detto che la migliore delle storie non vivrebbe senza una certa “scrittura”, senza il giusto dosaggio di pathos ed eleganza del testo. Un’opera letteraria, in generale, richiede innovazione pur restando classicamente corretta, richiede una personalizzazione che non risulti dissonante. Cinzia Perrone, in questo suo lavoro editoriale, non ha disatteso questo tipo di aspettativa.
La trama è di quelle che non ci si immagina, sorprende e invita ad un lettura attenta. La vita del protagonista, pur stravolta da fenomeni paranormali, insistenti e dominanti, resta sul piano di una narrazione in equilibrio dinamico tra ordinario e straordinario, dove l’uno interroga l’altro, in una ricerca di chiarezza che è conoscenza, approfondimento, innalzamento della coscienza. Ed infine, in un certo senso, gli opposti si fondono: cosa è ordinario, cosa è straordinario? Non è forse vero che tutto concorre alla Vita, all’Essere? In una girandola di situazioni, inneschi percettivi, rivelazioni e nuove scoperte, il lettore segue Sandro, protagonista e voce narrante, nei suoi ragionamenti, nelle emozioni e nelle più intime domande. Le domande che coinvolgono tutti. Domande universali, e che all’universo si rivolgono, in attesa di risposta che arriva, nella vicenda del romanzo. Arriva e la sentiamo nostra. Ci sentiamo un po’ Sandro, come quando rielabora il concetto del tempo, che non va sprecato. Non nel senso che va riempito il più possibile affinché non rimanga spazio vuoto. Piuttosto va vissuto il più possibile, non riempito, e per riuscire in questo talvolta occorre fare meno ma fare meglio.
Occorre la piena consapevolezza del momento, la piena presenza di sé nel singolo istante, come se la sommatoria di ciò che è stato e che siamo si debba rivelare nel “qui ed ora”. Occorrono percezioni, sensazioni, ascolto, meditazioni. Occorre contemplare…occorre amare. Per “sentire” il tempo bisogna conoscerlo, dargli dignità e tutto il valore possibile. Ecco che allora diventa fondamentale quel saluto all’amico, il bacio o un abbraccio alla persona amata con l’intensità necessaria. Il proprio risveglio passa inevitabilmente anche per lo sguardo altrui. Nell’amore, in quello intimo e personale ma anche nell’estensione verso il nostro prossimo, c’è la scialuppa per eccellenza, c’è l’espansione di noi. Si dà il massimo quando l’empatia trova la sua strada. Nel romanzo “L’uomo che parlava all’universo” tutto questo risulta chiaro. Resta il messaggio, oltre l’avventura raccontata, resta il valore etico. Nessuno vive solo, nessuno vive solo per se stesso.
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