di GIAMPIETRO DE ANGELIS –
In questo periodo stridente, tra la non sempre spontanea necessità dell’augurio natalizio, gli addobbi e le spese di fine anno, nell’eco di conflitti insensati e le forze speculative, mentre singole personalità emergenti, nonostante tutto, hanno per costante obiettivo la forse inutile propria affermazione, mi tornano in mente i racconti confidenziali di un amico poi perso di vista. Per amore di privacy lo chiamerò Raffaele. I racconti dell’amico non hanno stretta attinenza con quanto sopra, anzi non ne hanno affatto. Eppure…risulterà evidente il nesso per cui ne parlo. Nel maggio del ’93, nel corso di una gita, mentre addentavamo panini in una pausa, seduti ai margini di un affluente montano di un fiume che non sto a dire, Raffaele se ne uscì con «Ma te l’ho raccontato del viaggio astrale?». No, non lo aveva mai raccontato. Ecco, in poche parole delineò quasi la sceneggiatura di un sogno ad occhi aperti. Pochi anni prima, circa a diciotto anni, s’era appena svegliato senza voglia di alzarsi subito…
«Penso a Sara, al desiderio di tenerezze adolescenziali. Sento qualche rumore che mi fa capire che di là mia madre già armeggia in cucina. Tra poco mi alzo, mi dico, ma…qualcosa non va. A partire dalle gambe, il corpo si trasforma velocemente in un blocco rigido. Sono in grado di vedere e sentire, ma non di muovermi. Poi, qualcosa di ancora più inspiegabile. Non sono più lì, nel corpo intendo, che vedo giù, in basso, nel suo letto. Sono non so dove, come una parte eterea di me sbalzata alla velocità della luce…verso la Luce! Un viaggio fulmineo che non posso controllare, vedo solo una luce bianca luminosissima ma che non disturba gli occhi. Ho paura. Molta paura. Forse non dovrei, ma ho un vero e proprio terrore e forse è per questo che in qualche modo, con tutte le forze, quel corpo laggiù cerca di muovere un dito. Ci riesce e tutto svanisce. Sono rientrato. Sono ancora una unità. C’è la normalità della stanza, non più la fonte di luce, non più un viaggio astrale. E mi alzo, incredulo e stordito».
Raffaele era tipo di grande serietà, sempre impegnato in qualcosa, un amico affidabile. Lui stesso cercava di spiegare dicendo “Avrò sognato”, ma sapeva che non era possibile. Tornando mille volte con il pensiero, ricordava con nitidezza gli aspetti che denotavano lo stato di veglia cosciente. Non è stata l’unica volta. Ha conosciuto altre esperienze che potremmo definire paranormali. Esperienze che lo portarono ad una conclusione di una assoluta semplicità: non esistono fenomeni paranormali. Si verificano, ma sono normalissimi. Sono le espressioni della nostra natura umana che si apre a conoscenze maggiori, sono porte verso qualcosa di più esteso. Non è questione di fede, tantomeno di appartenenza religiosa: è l’ascolto, la sintonia spirituale con ciò che “è”! Gli chiesi cosa significasse quell’ultima definizione. Sorrise ed andò a giocare a pallone con altri della comitiva. Non ne abbiamo più parlato di quei fenomeni. So che prese una laurea in materie umanistiche e che, dopo le consuete fatiche, divenne docente universitario. Una volta, una decina d’anni fa, incontrandoci quasi per caso (il caso?!) mi confidò che non ne aveva parlato mai con nessuno, solo con me in quell’unica occasione.
«E quel ciò che è cos’è?» gli chiesi. «È ciò che è, non c’è spiegazione. Vedi, abbiamo impiegato milioni di anni per costruire un po’ di conoscenza, portando l’asticella verso livelli che solo un secolo prima sarebbero stati insostenibili, impensabili. Ma tra mille anni, guardando alle nostre biblioteche odierne e alle nostre letterature scientifiche, cosa diranno? Noi abbiamo rappresentazioni del reale, ma non conosciamo la realtà. Noi non conosciamo davvero ciò che “è”. Se la smettessimo di sentirci grandi nel piccolo e imparassimo ad essere piccoli nel grande impareremmo a riconoscerci in una Umanità che sa creare armonia, che sa ascoltare le sottili percezioni, che lascia che certe porte si aprino. Sotto la comoda ed abusata definizione di miracolo ci sono energie che si liberano, che esistono ma che non conosciamo ancora. Ma dove vogliamo andare con le nostre presunzioni!? Occorre umiltà amico mio. Occorre umiltà ed apertura. Invece ci chiudiamo a riccio, andiamo alla conquista di scogli, ergiamo corazze vestite di orgoglio. Quanto spreco. Quanta inutilità».
Magari incontrerò ancora Raffaele ma avrò la saggezza di non chiedere nulla e prenderci insieme un caffè, in quel bar che gli piaceva, leggermente in collina, che abbraccia una meravigliosa vista sul mare.
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