di GIAMPIETRO DE ANGELIS –
Quando si prende posto, nella sala ancora vuota, la prima cosa che si fa, e lo si dovrebbe fare sempre, è quello di vuotare la mente e non crearsi aspettative. Solo così si può apprezzare appieno una pellicola. C’è qualcosa che stupisce subito, nel seguire “Perfect Days” di Wim Wenders: la scelta del formato. Dapprima non ci si fa molto caso, si crede sia relativo a qualche parte. Tutto il film è stato girato nel vecchio formato quasi quadrato, come eravamo abituati con lo schermo televisivo nel secolo scorso. E questo la dice già lunga, a ricordarci, nei giorni nostri, che c’è stato un prima rispetto al digitale: le musicassette degli anni ’70 e ‘80, i telefoni nelle cabine, le macchine fotografiche analogiche con i rullini da far sviluppare con quello che significa. Scattare una foto, con quel tipo di fotocamera, equivale a riflettere, a scegliere il momento, a valutare le condizioni di luce, per non sprecare il frammento della pellicola e anche perché le cose appaiono preziose: richiedono tempo e meditazione, una certa consapevolezza.
Tutto questo, nel film, è trasferito nell’oggi della tecnologica Tokio. Il contrasto è evidente. Lo è nei comportamenti della gente, nel traffico, nelle maniere, nelle abitudini. Il protagonista, KōjiYakusho premiato a Cannes con la Palma per l’interpretazione, ha scelto una vita ben precisa, regale nell’accezione più sublime e dignitosa, quella di vivere concretamente il “qui ed ora” lontano dagli stereotipi e dai richiami del mondo, nell’apparente condizione del poco abbiente. Vive in un quartiere povero, in una casa essenziale ma piena di libri, guida un’auto vecchia di decenni, veste abiti semplici e fa un lavoro umile. Il ritmo è scandito dalla metodicità e dalla regolarità delle azioni che si ripetono, giorno dopo giorno, senza attese né desiderid’altro tipo, in una routine che diventa un tempio esistenziale.
L’uomo, un cinquantenne, si sveglia sempre alla stessa ora, si lava nel lavello della cucina, prende un caffè in un dispensatore automatico sotto casa, sale in auto e sceglie una delle sue preziose musicassette e, al suono di quelle bellissime canzoni, ci conduce nella ultramoderna Tokio, in un giro che è sempre lo stesso: fa sosta presso i gabinetti pubblici perché lui è l’uomo delle pulizie. E qui, vediamo l’Uomo nell’amore che mette nel pulire i bagni nei minimi dettagli con un’attenzione maniacale (tra l’altro stupisce la bellezza architettonica dei bagni pubblici giapponesi). Ogni gesto è come un rituale, il suo essere si riversa e si dona in un rispetto totale. Elegante e delicato, senza giudizio, è il suo modo di osservare le persone, e in tutte coglie quella sfumatura che è la connotazione umana. Sceglie sempre la stessa panchina al parco per consumare il suo panino e ogni giorno dedica la pausa al richiamo dei giochi di luce tra le fronde dei grandi alberi, uno in particolare, e immancabilmente scatta le sue foto: il soggetto è sempre lo stesso ma le foto sono diverse perché nulla è mai uguale nell’apparente immobilità delle situazioni.
Chi va a vedere la pellicola con una sua attesa, perché Wenders non delude mai, potrebbe restare sconcertato. Il film ha una sua voluta lentezza, vediamo scene che si ripetono quasi uguali, con pochissimi dialoghi. Chi si aspetta un’evoluzione non comprenderà il senso. Il film è un richiamo al Sé, all’Essere più che all’Avere, e lo si comprende bene quando l’uomo delle pulizie incontra la ricchissima sorella. Tutto riconduce ad una saggezza antica, se si vuole di tipo buddhista ma direi universale, che il Tutto è nel Poco, che ciò che si è non si rivela fino in fondo, non si manifesta, rimane nel silenzio di un proprio sorriso più interiore che esteriore, in un vissuto che è pace, amore sottile e non sbandierato, una forma di gioia per i piccoli piaceri che l’uomodelle pulizie si concede alla sera. Sempre solo tra soli, perché questa è la vita.
Il resto è apparenza, è inganno per la mente. Ma proprio perché si è in una moltitudine di solitudini, diventa prezioso uno sguardo sincero, un abbraccio inaspettato, il ritrovare quella panchina, il dedicare la propria visione del bello nella rituale pulizia dei gabinetti tecnologici dei giardini pubblici, l’ascoltare assorbito quella musica, il leggere ogni sera un nuovo libro, sapendo che tutto ricomincia, si rinnova con la luce del nuovo giorno. Tutto ricomincia, sempre uguale eppure diverso. Lo spettatore si alza quando l’ultima didascalia è già passata, l’ultima nota della colonna sonora ormai sfumata. Non ha fretta di uscire. Il messaggio in qualche modo è arrivato, un messaggio che va fatto decantare e custodire.
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