di GIAMPIETRO DE ANGELIS –
Tutto è accaduto nel diciannovesimo secolo. La storia della bicicletta è una storia veloce. Dapprima il “celerifero” francese, un po’ triste a dire il vero: due ruote collegate tra loro con un asse e basta, neanche il comfort di un manubrio. Occorreva spingere con i piedi a terra e non s’andava lontano. Il manubrio, collegato alla ruota anteriore, fu l’idea successiva del tedesco Karl von Drals. Ma ancora occorreva spingere con i piedi a terra, fino al 1864 quando i francesi aggiunsero i pedali direttamente collegati alla ruota anteriore. La trasmissione a catena non era ancora nei pensieri ma almeno non era più necessario spingere a terra. Era il “velocipede”. Bello e suggestivo da vedere, pericoloso da condurre. Avete presente quelle stranissime bici con la ruota anteriore gigantesca e quella posteriore piccolissima? È il velocipede, con il sellino alto, vicino al manubrio e quindi, in pratica, direttamente sopra la ruota anteriore. Cadere significava farsi male. Ancora una ventina d’anni ed ecco qualcosa che somiglia all’attuale bicicletta. John Kemp Starley nel 1885 introduce la trasmissione a catena, collegata alla ruota posteriore. Le due ruote avevano un diametro simile alle attuali. Ci siamo quasi. Ma ancora qualcosa mancava: i mezzi erano rigidi, le ruote dure e lo sconnesso faticoso. È il tempo di John Dunlop e la sua invenzione geniale: gli pneumatici, tre anni dopo. Tutto cambia, la bicicletta è la grande rivoluzione della mobilità dell’800, così come l’automobile lo è nel ‘900: simbolo di libertà, movimento, divertimento, praticità. Allora come oggi. Le distanze si accorciano.
Questa premessa fa da cornice ad una piccola storia, probabilmente più attinente alla fantasia che alla realtà, ma ci piace considerarla a prescindere. È il 1915 e una giovane donna, Clara Wilkes, non ancora ventenne, ha un’infinita fame di indipendenza e libertà. Possiede una bicicletta Clara e la carica all’inverosimile per viaggiare lungo un tour in solitaria su strade sterrate di campagna. Ha con sé la tenda, il necessario per potersi cibare e cambiare. Come in un film, immaginiamo la giovane Clara che si sveglia di prima mattina e riprende il suo giro, con il sole ancora basso che proietta lunghe ombre sui prati. L’ambiente circostante sembra accoglierla, con i suoi alberi tra i campi coltivati. Lei spinge sui pedali con un pensiero fisso: conoscere ciò che ancora non ha visto. Non è la meta che la motiva, bensì incontrare il dettaglio, la piccola novità, quella del fruscio tra le fronde, o lo scorrere di un ruscello. Le interessa vedere cosa c’è dietro una nuova curva, oltre quel boschetto. Le piace incontrare la gente nel piccolo borgo mai visto prima, indaffarata ma cordiale. Pedalata su pedalata, chilometro su chilometro. Le ore passano, la stanchezza aumenta ma il sorriso non si spegne. La determinazione non molla. Chissà quali pensieri e sensazioni. Chissà quante emozioni. Una religione laica, la sua. Un inno alla vita.
Questa storia circola in alcuni post sui social. Come accennavo, non c’è certezza sia vera e sono incline a pensare che non lo sia. Ma non è questo il punto, non interessa la realtà. Interessa il senso. Neanche i miti sono storia ma insegnano oltre misura, spesso insegnano quello che non oserebbe raccontare la realtà storica. Basti vedere la forza espressiva del mito di Sisifo, ad esempio. E Clara, con il suo osare ad andare oltre con tenacia e persistenza, con un mezzo carico e pesante, instabile e faticoso, mi ricorda proprio Sisifo nell’interpretazione di quel genio di Camus. Ogni passo che avanza, ogni sasso che incontra, ogni filo d’erba che supera le appartengono. Non è proprietà, ovviamente, è “congiunzione”, è la configurazione che si rinnova, generando un unicum che è insostituibile, che vede ognuno di noi perfettamente al centro, persona perfetta nell’imperfezione, unica nel mare delle unicità. È questa la gloria della bicicletta. Nei suoi due secoli di vita ha regalato a molti la magnifica sensazione di sentirsi liberi, appropriati e senza bisogno di dimostrare alcunché: stare con sé per se stessi. Verrà il giorno che il sole non tramonterà, né avrà un risveglio, ma quel giorno non esiste nella frazione dell’istante della pedalata mentre gli occhi seguono un volo solitario. La bicicletta ci ricorda anche questo.
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