di GIAMPIETRO DE ANGELIS –
Ci sono film che vanno visti, per ciò che sono e rappresentano, per quello che raccontano e per come lo fanno. Ci sono film che ripercorrono il dolore dell’assurdità delle derive autoritarie ma viste da dentro, dentro l’esistenza reale, dentro quegli spiragli dove intravvedi che davvero tutto potrebbe essere altro, dove la creatività, la genialità e la genuinità potrebbero vivere, svilupparsi e creare condizioni di convivenza sana tra la gente, nel rispetto delle diversità culturali e delle specificità. Ci sono storie dimenticate che andrebbero erette a caposaldo della coscienza. È il caso raccontato dal film “Il maestro che promise il mare” di Patricia Font, ambientato nella Spagna alle soglie del periodo franchista. Antoni Benaiges, interpretato con intensità da Enric Auquer, è un maestro catalano che accetta di insegnare in una pluriclasse nel paesino Bañuelos de Bureba, nella provincia di Burgos, intorno al 1935. Oggi quel paese conta solo 35 abitanti. Antoni adotta un metodo che al tempo era decisamente innovativo e lo sarebbe anche oggi, segue i concetti del pedagogista Freinet. Un metodo “naturale” che cercava, riuscendoci, di sviluppare le qualità intrinseche degli alunni, quelle che potremmo definire talenti personali, coinvolgendoli attivamente e circolarmente. Non lezioni frontali per intenderci, ma dinamismo, partecipazione senza esclusioni, progettualità concreta, come realizzare un giornale della classe utilizzando la tipografia direttamente all’interno della scuola.
Antoni, in una società sostanzialmente analfabeta e schematica, povera e chiusa, deve rapportarsi con una diffidenza tenace e che sembra insormontabile. Eppure, grazie ai risultati ottenuti con i bambini, gradualmente i genitori iniziano ad accettarlo, ma non a comprenderlo fino in fondo. E forse la storia sarebbe stata quella di una ordinaria transizione culturale generazionale se non fosse che l’ignoranza del potere, quando si sente minacciato, fa crollare ogni castello innovativo e fecondo di pensiero critico ed autonomo. A partire dal parroco che vede in lui il nemico che sviluppa le coscienze, minando la logica del gregge sottomesso. Lo denuncia ai militari franchisti e il resto è prevedibile. Antoni, che è ateo e di idee di sinistra, viene arrestato, torturato e mostrato come monito ai cittadini ed infine ucciso. Ogni cosa che lo riguarda viene distrutta per non lasciarne memoria. I suoi resti, finiti con centinaia d’altri dissidenti nelle fosse comuni, non sono mai stare ritrovati.
Il film si sviluppa su piani temporali e generazionali, tra l’oggi e quel triste periodo, lasciando emergere tutto il dolore e lo strazio di una fase storica oscura quanto assurda, ma anche la speranza, la forza del nuovo inizio. Antoni, nella realtà, ma anche nella rappresentazione cinematografica, è un personaggio straordinario nella sua semplicità. Sa accogliere, dare fiducia ai ragazzi, sa incoraggiarli. Sa, il maestro, che quelle giovani vite diverranno donne e uomini diversi, saranno migliori di chi li ha preceduti, se sapranno coltivare l’ascolto di sé, se manterranno quello spirito cooperativo pur mantenendo la specificità individuale, se riusciranno ad essere critici e non asserviti, se il mondo non li tradirà. Ecco, il punto è lì: il mondo tradisce. La storia plurimillenaria dell’umanità ha mostrato che quando l’ignoranza si associa al potere non c’è dialogo che tenga e logica umanistica che funzioni. Tutto rischia di crollare, nei casi estremi l’oscurità avvolge coscienze e speranze, bloccando ogni percorso di rinnovamento fino ad un nuovo stravolgimento.
Lo spettatore si lascia coinvolgere e commuovere. Infine resta un’amara considerazione: ma quante apparenti piccole storie, in realtà straordinarie, vengono dimenticate? Quante vite sono passate senza che rimanga una traccia ma che hanno dato un contributo notevole? L’augurio è che dalla storia si possa davvero apprendere la lezione e non riperpetuare gli stessi schemi e che il meglio di ciascuno, seppure silenziosamente, seppure senza piedistalli mediatici, possa confluire in una sorta di coscienza collettiva, nella speranza e necessità che non venga perso l’impegno individuale.
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