di SARA DI GIUSEPPE –
VERFREMDUNGSEFFEKT TESTIMONIAL, Rassegna di teatro poesia musica canto orchestra
A cura di Vincenzo Di Bonaventura e Teatro Aoidos, Il CONTRABBASSO di Patrick Süskind,
Ri-scrittura scenica di e con Vincenzo Di Bonaventura e con Alberto Archini alle percussioni, Ospitale delle Associazioni, Grottammare Alta, 7 e 8 Dicembre 2024 h21,30.
“Suonerò per te, stanotte”
GROTTAMMARE – Franz, bassista – seconda fila terzo leggìo – dell’Orchestra di Stato di Berlino, uomo qualunque, entra in scena vociando: cappotto cammello, piglio risoluto, gestualità ampia, monologando disserta di sé, di musica, di orchestre, di canto e d’altro ancora. Apostrofa di tanto in tanto un amico inventato, là, in platea, poi riprende l’alluvionale flusso di coscienza… Ma noi sappiamo di aver davanti il nostro Di Bonaventura attore, regista, sceneggiatore, musicista, tecnico del suono e fabulatore d’incanto; “macchina attoriale”, insomma, che allo stesso modo del contrabbasso ha in sé la potenza di un’intera orchestra.
Sappiamo poi che lo spettacolo che vedremo stasera “già domani sarà diverso”: perché oggi la ri-scrittura scenica di questo Contrabbasso di Süskind ci offre un testo metabolizzato nell’inconscio attoriale e ”pulsato dal cuore” verso noi spettatori; e domani quel “testo a monte” – come nel dettato beniano – ancora ri-creato dopo essere stato “dimenticato”, sarà nuovo e altro. E ancora noi spettatori ne saremo raggiunti fin nell’io profondo: tanto da poter essere vero, per dirla con Carmelo Bene, che potremmo “non saper raccontare ciò da cui siamo stati posseduti nel nostro abbandono al teatro”.
Stasera è monologo – tragicomico – per attore solista, con batteria al completo per jazzistiche sottolineature, con qua e là travolgenti assaggi di grande musica nel flusso dissertatorio del bassista Franz, nello spazio claustrofobico della stanza insonorizzata dove si esercita col suo strumento, a poche ore dalla rappresentazione serale de L’oro del Reno. Dunque detesta Wagner, il nostro Franz – Se ci fosse stata la psicanalisi ci saremmo risparmiati quel mostro di Wagner – quasi con lo stesso ardore con cui ama Brahams e Schubert – ah la Seconda di Brahms! ah l’Incompiuta di Schubert! – e d’altronde i musicisti sono tutti in analisi, sono la categoria più depressa, sono così dipendenti dal loro strumento…
Lo strumento, già.
Lui, il contrabbasso: anno di costruzione 1910 circa, altezza del corpo 1,12, fino al riccio 1,92; lunghezza della corda vibrante un metro e dodici […] oggi potrei chiederne fino a ottomilacinquecento marchi. Fin dall’inizio il flusso di coscienza non lascia dubbi sulla centralità dello strumento (il mostro) tanto nell’orchestra quanto nel pur limitatissimo universo relazionale del bassista: Se c’è una cosa inconcepibile è un’orchestra senza contrabbasso (…) Se si toglie il basso insorge una totale confusione linguistica di tipo babilonese, una Sodoma, all’interno della quale più nessuno sa perché fa della musica.
E tuttavia dei contrabbassi non si accorge nessuno. Soprattutto non se ne accorge Sarah, splendida soprano destinataria della desolata incorrisposta passione di Franz, amorosa ossessione con quella voce, quell’organo divino. Lo sguardo di lei non è mai rivolto al contrabbasso di fila, e lui si spingerebbe all’autolesionismo professionale, pur di attirarne l’attenzione (Quasi quasi stono apposta…quasi quasi lo lascio cadere…); mentre in parallelo si fa sempre più marcato, nel flusso di coscienza, l’avversione per lo strumento, la percezione di quello come di un ostacolo: Non è uno strumento, è un mostro. A volte vorrei fracassarlo. Segarlo a pezzi. Spaccarlo. Triturarlo, schiacciarlo e polverizzarlo e… farlo fuori in un camion col carburatore a legna! No, proprio non No, proprio non posso dire di amarlo.
Con il feroce totalizzante amore/odio che unisce Franz al contrabbasso – che ha un’orchestra nelle sue 4 corde, che soffre il caldo e il freddo, cannibalizzante nella sua monumentalità – sale in superficie quel coagulo di frustrazione e impotenza che è la condizione esistenziale e professionale del personaggio. Lo stesso contrabbasso, rabbiosamente percepito come zavorra che impedisce di emergere, si fa a sua volta depositario di significati metaforici, scandaglio psicanalitico di pulsioni rimosse e di complessi (quello edipico, innanzi tutto, alla base della scelta di quello strumento al quale non si arriva se non per vie traverse, per caso o per delusioni): ed è – nel suo ingombrante gigantismo che tuttavia l’orchestra “nasconde” – in tutto simile a un iceberg: ne vedi il 10% e sai che la parte maggiore è sommersa, ed è la più inquietante.
Ma a dispetto dell’odio – Uno strumento orribile! […] Sembra una vecchia grassa. Il fianco è troppo basso, la vita un disastro totale […] e poi la parte delle spalle, esile, cascante e rachitica – c’è da impazzire – e per una sorta di transfert sessuale, lo strumento finisce per assumere le sembianze di Sarah: a volte immagino di vedermela davanti, molto vicina, come il contrabbasso in questo momento. E di non potermi controllare, di doverla abbracciare… così… e con l’altra mano così… quasi come faccio con l’archetto… di circondarla col braccio… o dall’altra parte, di cingerla da dietro come faccio con il contrabbasso e di appoggiare la mano sinistra sui suoi seni, come avviene nella terza posizione sulla corda sol… quando suono da solista…
Suonerò per te, stanotte…
Non può che tracimare, l’intreccio di frustrazione, orgoglio, rabbia. E lo farà, nello struggente delirio in cui Franz vede sé stesso – mentre l’orchestra quasi sospende il respiro in attesa dell’inizio e le tre figlie del Reno stanno là come inchiodate dietro il sipario chiuso – esplodere, dal fondo del golfo mistico, nello spettacolare grido: SARAH!
L’effetto sarà colossale, lo leggerete domani sui giornali.
Solo qualche anno prima il felliniano Prova d’orchestra* (1979) riproduceva dinamiche simili, mettendo in scena la ribellione dei musicisti contro l’orchestra e la società gerarchizzata di cui quella è proiezione e miniatura, che si realizza ma per fallire poi e lasciare il posto ad un’ angosciosa oscura normalizzazione. In Süskind la ribellione resta virtuale: e resta quella stanza chiusa, insonorizzata, spazio mentale più che fisico, metafora di una condizione atemporale dell’esistenza e insieme veicolo di riflessione critica sulla funzione dell’artista, sul consorzio umano, sulla contemporaneità in genere.
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* ”Che ci era successo a tutti noi che viviamo in questo Paese? Perché eravamo ridotti a questo punto? Tra questo e il film non c’è stata nessuna connessione diretta, o almeno io non me ne sono reso conto. Il nesso l’ho percepito molto tempo dopo, quando il film era già finito, anzi quando era già in programmazione. Non è che fin dall’inizio io non annettessi al film i significati che ha, ma non avevo coscienza del perché a un certo punto mi fosse diventato urgente il farlo. Ebbene, poi l’ho saputo: è stato l’assassinio di Moro”. (Federico Fellini)
(in Franca Faldini – Goffredo Fofi, Il cinema italiano d’oggi, 1970-1984)
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