di SARA DI GIUSEPPE –
“Ecco dunque il peccato di Raskol’nikov; l’orgoglio e la superbia; l’infrazione della legge e l’affermazione di sé; la trasgressione della norma e la pretesa d’una libertà illimitata: la ribellione e il titanismo.” (L.Pareyson, Il male in Dostoevskij)
GROTTAMMARE – Essere unico attore e interpretare più parti; uscire da un personaggio ed entrare in un altro e di nuovo uscire da questo e nel mentre spiegare al pubblico ciò che si sta facendo: è ciò che l’eccellente Simone realizza stasera – nel “suo” DELITTO E CASTIGO – ponendosi nel solco dell’intuizione teatrale di Dario Fo – l’attore unico che interpreta più ruoli – e calcando l’orma dei maestri, da Carmelo Bene fino a Di Bonaventura.
È quest’ultimo, nel suo momento conversazionale col pubblico – quasi numeroso, stasera, in libera uscita dalla catalessi culturale dei luoghi, chissà se dura – a ricordare la figura dell’amico e artista, il giovane Giuseppe Plebani troppo presto scomparso e a cui l’intera rassegna Verfremdungseffekt Testimonial è dedicata; a sottolineare ancora come in questo teatro del testimone l’attore sia anche e soprattutto artefice: poiché è colui che “supera” il testo (in quello che egli chiama attentato al testo: per di più, oggi, non opera teatrale ma romanzo) e nella ri-scrittura scenica lo ri-crea e nel rappresentarlo opera il brechtiano “straniamento” – Verfremdungseffekt – tanto sulla scia delle avanguardie teatrali (da Lecoq a Brook, a Bene, a Fo) quanto attingendo all’antico, al dramma classico e alla Commedia dell’Arte.
Nella spoglia scenografia dell’inospitale Ospitale – che è quasi lo “spazio vuoto” di Peter Brook, “necessario” perché al centro vi sia l’elemento umano – agiscono il Simone/Raskol’nikov e il Simone/Petrovič Giudice Istruttore, e ancora il Simone/Raskol’nikov deportato in Siberia: nei monologhi di Raskol’nikov, nelle trappole logiche del sulfureo Petrovič si delineano gli imponenti temi etici del romanzo e l’essere, questo, manifesto esistenziale sulla condizione umana, sulla ricerca di giustizia e sul concetto di colpa. Vi è un misfatto, organizzato con accurata progettazione, ma il misfatto risponde ad un’esigenza impellente di giustizia del protagonista, all’impossibilità di sopportare l’idea che la propria vita e quella di altri sia rovinata da un essere spregevole, l’usuraia in questo caso (Io non ho ucciso una persona, io…io… ho ucciso un principio).
Giustizialismo che lo rende giudice e carnefice al tempo stesso: l’intrinseca “giustizia” che Raskol’nikov vede nel delitto – l’idea universale di giustizia è infatti per la sua natura ideale, inattuabile e imperfetta, e dunque “si può rinunciare alla perfezione” – si legittima storicamente poiché – come argomenta in uno slancio superomistico – …tutti i legislatori, i fondatori della società, dai più antichi e continuando con Licurgo, Solone, Maometto, Napoleone e così via erano criminali per il solo fatto che facendo una nuova legge infrangevano quella precedente che la società considerava sacra. […] Ciò che è notevole è che la maggior parte di questi benefattori e fondatori dell’umanità ha versato fiumi di sangue.
Paradosso che confliggerà ben presto con la stessa volontà di giustizia del giovane e lo precipiterà nell’inferno del dissidio interiore che lo perderà. La legge morale – come tutto ciò che è universale ed esiste indipendentemente dalla nostra volontà, a cominciare dalle leggi di natura – non può essere razionalizzata o dimostrata: nella pretesa di farlo, Raskol’nikov pecca di superbia e viola, nel delitto, la legge morale per eccellenza, la sacralità della vita che è indipendente dalla sua utilità o nocività nel consorzio umano. E si rende, infine, artefice della propria rovina. Un fascio di luce abbagliante sull’eterno umano dramma è quello che il nostro Simone, attore/artefice, estrae dal romanzo.
Nei monologhi della sofferta introspezione del giovane, nel groviglio di circostanze scandagliate dal giudice istruttore, nella volontà di espiazione e riscatto di un Raskol’nikov ormai deportato, l’arte scenica ci trasmette in ogni vibrazione il conflitto interiore, la dicotomia tra delitto e desiderio di giustizia, tra questo e la giustizia stessa come entità superiore e impersonale. Ma nel buio che scende sulla sala e sul pubblico e sull’ultima battuta – Solo sette anni, ancora sette anni!… – il nostro Simone/Raskol’nikov sembra dirci che gli interrogativi restano irrisolti, che “la realtà del male [….] è purtroppo una realtà effettiva e ineludibile che conferisce alla condizione dell’uomo un carattere eminentemente tragico” (L.Pareyson). Così come la complessità del male si sottrae ieri come oggi alle facili o consolatorie schematizzazioni, e lo sguardo che scandaglia gli abissi dell’umano può solo ritrarsene, senza portare con sé risposta alcuna.
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…Ma qui inizia un’altra storia, la storia del graduale rinnovamento di un uomo, la storia della sua progressiva rigenerazione, del suo passaggio da un mondo ad un altro, quella del suo ingresso in una realtà che fino a quel momento non aveva nemmeno immaginato. Questo potrebbe essere il tema di un nuovo racconto, ma quello presente è giunto alla fine.(F.Dostoevskij, Delitto e Castigo – Epilogo, II)
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