Teatro è: un tappeto iraniano

di SARA DI GIUSEPPE –

Don Chisciotte di Miguel de Cervantes. Riscrittura scenica di e con Vincenzo Di Bonaventura. Ospitale delle Associazioni, Grottammare Alta (28 -29 dicembre 2024).
“…E il teatro non è soltanto i suoi spettacoli; non è soltanto una forma artistica, ma una forma di essere e di reagire. È tradizione e invenzione di tradizione”. (Eugenio Barba)

GROTTAMMARE – “Sono uno stradarolo” dice di sé Di Bonaventura, perché “appartengo alla vecchia categoria dei teatranti che migrano”, nella più pura tradizione della Commedia dell’Arte, “il più bel teatro del mondo”. Con lui anche il romanzo può farsi teatro di strada, e ogni luogo può per lui essere teatro e palcoscenico. Oggi, al centro del palco-che-non-c’è, è un tappeto iraniano (da “una delle civiltà più antiche della storia umana, e nella quale sicuramente sono nati i primi teatri e i primi culti ad essi connessi”*) l’oggetto scenico che perimetra l’azione teatrale e simbolicamente scandisce i ruoli cangianti dell’unico soggetto-attore. L’essere alternatamente sopra il parallelepipedo che il tappeto ricopre e lo scendere da questo codifica rispettivamente l’entrata dell’attore nel personaggio e l’uscita da questo e l’interazione con i presenti.

Ed ecco allora il teatro divenire atto totale, vivere nello Spazio Vuoto – alla Peter Brook – nel quale ciò che conta è l’umano e il rapporto alchemico di questo col pubblico; ecco l’attore superare il teatro accademico e “mortale”, eccolo farsi giullare alla maniera di Dario Fo, reinventare il testo e sovvertirne il linguaggio; eccolo sdoppiarsi ed essere ora il Cavaliere dalla Triste Figura con la sua lingua paludata e aulica, ora il fido scudiero Sancio dal travolgente eloquio abruzzese-forse-rosetano. Ecco la scena diventare laboratorio linguistico e ricreare codici espressivi popolari e antichi, di rara efficacia; pari, per pathos e forza drammatica –  Vincenzo dixit – alla lingua dei tragici greci.

Si è dotato di katana, il nostro Di Bonaventura, per meglio seminare terrore e distruzione intorno: perché è questo che dovrà fare il nobile Don Chisciotte, così appassionato di libri di cavalleria da consumare in quella lettura giorni interi cosicchè sia per il non dormire sia per il troppo leggere gli si seccò il cervello e finì per perdere la ragione.

“Partì un bel mattino di luglio
Per conquistare il bello, il vero, il giusto”
(Nazim Hikmet)

È struggente, la follia di questo “cavaliere invincibile degli assetati” autoproclamatosi cavaliere errante, venturiero e prigioniero della vezzosa senza pari Dulcinea del Toboso; comico e insieme commovente il suo scambiare la modesta locanda per un avito maniero, le avventuriere di strada per nobili pulzelle, i mulini a vento per trenta o quaranta giganti e io penso di azzuffarmi con essi, e levandoli di vita cominciare ad arricchirmi colle loro spoglie. Comico il suo trasfigurare la figlia de lu purcare – così nel dialetto di Sancio – cioè la nerboruta contadina Aldonza di petto e lombi possenti, per la soave Dulcinea del Toboso, che merita d’essere signora dell’universo intero …

Gli fanno da contraltare Sancio e la sua ruvida concretezza, e quel suo dialetto che è ogni volta eruzione  incontenibile: di lamenti per il padrone ridotto a mal partito; di frizzi e lazzi per l’abbaglio che gli fa vedere Dulcinea nella muscolosa Aldonza; di umana pietà per quell’amore allucinato, per quella lettera a Dulcinea che il cavaliere gli affiderà: che la consegni, e solo se la risposta sarà diversa da quella sperata, allora impazzirò davvero, e come tale non sarò più capace di sentire affanni.

Ma è oltre la comicità giullaresca, el ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha, antieroe così lontano dall’eroismo dei poemi medievali (Ha un’anima trasparente dice di lui il buon Sancio, e Dostoevskij vi si ispirerà per “L’Idiota”) scagliato in una modernità in cui la fede nell’agire umano ha lasciato il posto all’incertezza e al disinganno.

Ariémecene a la casa!, “Torniamocene a casa!”, è il lamento costante di Sancio: capace, benché villano e credulone di misurare la distanza tra la realtà e la promessa folle del suo padrone “che in un girar di mano lo rendesse signore di un’isola, ed egli ve lo lascerebbe governatore”; vorrebbe ricondurre entro i confini del reale il sogno smarrito del cavaliere, gli ricorda che i cavalieri antichi impazzivano per un motivo, ma Don Chisciotte sa che non v’è né merito né grazia in un cavaliere errante se impazzisce per qualche giusto motivo: il sublime si è impazzare senza un perché al mondo.

E lo sgangherato hidalgo – “poeta, folle, mendicante” – nel microcosmo isolato e visionario che lo ingabbia diviene metafora universale di ogni ricerca di libertà percepita come “follia”; di ogni guerra, combattuta lancia in resta e già in partenza perduta, contro i muri alti delle convenzioni, delle ipocrisie, dei poteri consolidati. E il suo impazzare è forse l’illusione che addita “la maglia rotta nella rete”, il volo verso la libertà sempre pagato a caro prezzo.

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 “….ma tu sei il cavaliere invincibile degli assetati
tu continuerai a vivere come una fiamma
nel tuo pesante guscio di ferro
e Dulcinea
sarà ogni giorno più bella”

 (Nazim Hikmet, Don Chisciotte, 1947)

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 *Valeria Ianniello – “Viaggio nel teatro iraniano moderno fra tradizione e invenzione di tradizione”, 2015

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