di PIER GIORGIO CAMAIONI (PGC) –
EMILIANO D’AURIA QUARTET / LUCA AQUINO – “FIRST RAIN”
Emiliano D’Auria/piano Simone Alessandrini/sax Dario Miranda/double-bass Ermanno Baron/drums Luca Aquino/trumpet
San Benedetto del Tronto – Teatro Concordia 21. 1. 2025 h20,45
Fa strano pensare l’Emiliano D’Auria Quartet fuori di casa sua – il Cotton Jazz /Lab di Ascoli Piceno – quando di colpo ce lo ritroviamo al Teatro Concordia col loro album “FIRST RAIN” registrato tra i fiordi di Norvegia. Strana forse (per noi ragazzi scimmia del jazz) anche l’inconsueta ambientazione-teatro, affezionati a quel minimale palcoscenico di tralicci del Cotton che pare costruito col meccano. Senza sipario di velluto rosso. Però intanto, prima del concerto, ci rassicura l’ordine teutonico (quasi maniacale) dell’ambaradan di strumenti e apparecchiature sul grande palco.
Tutto predisposto calcolato misurato al millimetro, e bello! Fasci impressionanti di cavi elettrici (senza inciampi) che disegnano dolci curve come nei circuiti di F1, casse acustiche di design sovrapposte o allineate come quiete casette basse giapponesi (pardon, norvegesi), leggii coi buchi-emmenthal come tecnologiche vele spaziali, aste-microfono ramificate piantate dritte come magri alberi notturni, punti di luce come stelle senza ombre. E di qua, la batteria con l’argenteria e 5 piatti-dischi volanti apparecchiati ai posti giusti, di là quel pianoforte a coda lunga, nero, dalla grande ala pronta al volo.
Se come si dice, all’inizio sono un po’ pezzi “per rompere il ghiaccio”, qui è vero, ci dirà Emiliano: si tratta del “ghiaccio morto”, quasi nero, quello che si stacca dagli iceberg e vaga il mare fino a sciogliersi.
Tra Alesund e l’isola di Giske (dove registravano l’album) ne hanno visti e incontrati a blocchi, tanto che rimanendone ispirati hanno scritto DEAD ICE. In effetti pure noi rimaniamo un po’… freddi, dobbiamo capire dove va a parare questo strano jazz sperimentale ma chirurgico, imprevedibile ma non improvvisato (hanno tutto scritto), architettonico ma con atmosfere di Brooklyn, poco classificabile eppure magnetico, tendente al caldo. Ma non ci vuol tanto. Salvo il Miranda che fa fisicamente l’acrobata con gusto a tempo pieno, gli altri quattro lo fanno alla norvegese, con calma: suonano “leggendo tra le righe” la traccia inventata modificando al momento qualcosa o tutto.
Guizzi dialoganti a rischio calcolato come fanno gli acrobati. Cambi di rotta a seconda del vento e dell’onda, del tempo, dell’umore, della voglia, o di chissà cos’altro. Lassù in Norvegia evidentemente usa così: anche per la cultura vichinga sensibile in primavera alla “prima pioggia”, FIRST RAIN, a quella pioggia gentile e leggera di carattere salvifico e purificativo, che lava il terreno portando via impurità e detriti dalla terra e metaforicamente dalle menti, che allevia la malinconia sociale dell’inverno e del buio. Nell’originale coloritura di questo jazz difficile, intriso di atmosfere boreali con rare bolle di dolcezza, la corroborante “prima pioggia” di jazz dei fiordi infine bagna un po’ anche noi.
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