Rubrica “Poesie e Racconti” del Graffio
“L’EQUIVOCO PASQUALE” DI VITTORIO CAMACCI
La Pasqua era arrivata con il suo carico di attese, speranze e piccoli rituali che scandivano la vita della comunità di Spelonga. La chiesa di Sant’Agata, modesta ma intrisa di fede e memoria, si preparava a un giorno speciale. Don Paolo, con la sua voce vibrante e una volontà d’acciaio, aveva deciso di invitare un frate predicatore per la messa solenne. Non era una scelta casuale: quel frate aveva fama di scuotere gli animi, di toccare corde profonde, di portare i fedeli a confrontarsi con la loro coscienza.
Il giorno di Pasqua, le campane suonarono a festa, il loro rintocco si propago’ come un richiamo antico, mentre il paese, ancora assonnato, si risvegliava lentamente. La salita verso la chiesa si riempì presto di passi veloci e di mormorii. Le donne, con i loro foulard stretti sul capo, si aggiustavano le gonne sgualcite dal vento; gli uomini, con il cappello in mano, avanzavano con un’aria di rispettosa aspettativa. La piazza si animò, e presto tutti trovarono posto all’interno della chiesa, dove la luce filtrava fioca attraverso le vetrate, creando riflessi dorati sul vecchio altare.
Quando il frate salì sul pulpito, un silenzio assoluto calò sui fedeli radunati in Chiesa. Era un uomo alto e magro, con il viso scavato da anni di penitenze e un paio di occhi che sembravano scrutare dentro l’anima di chiunque incrociassero. La sua voce, inizialmente calda e sicura, cominciò a risuonare con forza: parlò di redenzione, di speranza, di come la Pasqua rappresentasse la resurrezione di Cristo e la possibilità di risorgere dalle proprie miserie. Tuttavia, ad un certo punto, il tono della sua predica cambiò.
«Ma non basta solo pregare,» disse, guardando il pubblico con occhi che sembravano bruciare di una furia silenziosa. «Dobbiamo risorgere anche nelle nostre azioni. E se vogliamo parlare di peccato, non possiamo ignorare quello che avviene ogni giorno nei luoghi di potere. Il Parlamento, ad esempio, è una “spelonca di ladri”, dove si nascondono i furfanti che rubano la dignità del popolo.»
Il frate si fermò, il suo sguardo penetrante scivolava su ogni volto, ma nessuno si aspettava che quelle parole scatenassero un simile effetto. La chiesa, un tempo silenziosa, esplose in un mormorio di confusione. Molti abbassarono gli occhi, altri si scambiarono sguardi carichi di incredulità. La parola “Spelonca” echeggiava come un colpo secco, ma il vero shock arrivò quando alcuni cominciarono a sussurrare, con il cuore in subbuglio: «Sta parlando di noi? Sta dicendo che Spelonga è una caverna di ladri?»
Il frate non si accorse della tempesta che stava suscitando. Continuò imperterrito, troppo coinvolto nel suo discorso politico, troppo distante dalla realtà di quel paese. «Se non cambiamo, la corruzione entrerà nelle nostre case, nelle nostre famiglie. Non è solo il governo che tradisce il popolo, ma anche noi stessi quando lasciamo che la nostra gente viva nell’ignoranza e nella paura.»
Il frate, confuso, tentò di alzare la voce per riacquistare il controllo, ma la sua parola non arrivò più come prima. La folla era ormai un corpo unico di rabbia e delusione. Alcuni, tra i più anziani, si inginocchiarono in preghiera, come se volessero proteggere il paese da quelle parole velenose. Ma il frate, sentendo la crescente ostilità, capì che la situazione stava diventando irreparabile.
Dopo un ultimo sguardo a Don Paolo, che sembrava incapace di fermare l’ondata di protesta, il frate decise di fuggire. Senza una parola, scivolò giù dal pulpito e si diresse verso la porta sul retro della chiesa che dava prima nel campanile e poi nella sagrestia. La sua fuga silenziosa fu notata solo quando il suo abito marrone scomparve nella penombra. Nessuno provò a fermarlo. La sua presenza, ormai invisa, era un peso insopportabile.
Mentre il frate svaniva nella nebbia di Spelonga, la chiesa rimase vuota, se non per i sussurri della gente che si scambiava opinioni e rivelava, tra un respiro e l’altro, quanto fosse stata pesante quella messa. La Pasqua, che avrebbe dovuto portare speranza, si concluse in un silenzio angosciante. La piccola comunità, unita nei giorni di lavoro e di preghiera, si sentiva ora divisa. Le parole del frate avevano colpito qualcosa di profondo, ma avevano anche lasciato cicatrici, tracce di un malinteso che, forse, sarebbe stato difficile sanare. Ci volle tutta la proverbiale pazienza e saggezza di Don Paolo per rimarginare nel tempo la tensione che quell’ immane equivoco aveva creato.
Vittorio Camacci
Mi chiamo Vittorio Camacci e la zona dove esercito da più di vent’anni la professione di guida turistica, ambientale, escursionistica, spazia tra le regioni Lazio, Umbria, Marche e Abruzzo, nel parco del Gran Sasso e Monti della Laga e nel parco dei Monti Sibillini. Sono nato e vivo da sempre a Spelonga (AP), piccolo villaggio a nord dei Monti della Laga, nel 1964. Sono stato anche ideatore, speaker e commentatore di eventi sportivi e manifestazioni folkloristiche. Mi piace comporre versi che parlano di antichi usi e consuetudini lavorative del passato. Il mio motto è “Tutti vogliono tornare alla Natura … ma nessuno vuole andarci a piedi”. La mia missione? “Farceli tornare di corsa!”.
Le mie specialità sono gli itinerari naturalistici.
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