di GIUSEPPE FEDELI –
La maschera svela la propria identità più nascosta, per poi rivelarla in mille cangianti forme. La maschera assume molteplici frazioni prismatiche, le più eccentriche e talvolta inquietanti – è un sipario che cala sull’oscuro – cela il volto per, paradossalmente, rappresentare ciò che siamo: è una sonda sulla zona più profonda e tenebrosa dell’io, ma anche uno spazio ludico in cui prendersi a gabbo e al tempo stesso mettersi in gioco, in una schermaglia con l’altro (con le altre maschere) che sottende svariati significanti e corrispondenti significati. Una specie di duello o di sfida a chi, s-mascherandolo, “indovinerà”chi è l’altro da sé. È possibile individuare un comune denominatore dell’orgia nella propiziazione e nel rinnovamento della fecondità, in particolare della terra, attraverso l’esorcismo della morte.
«La festa getta radici nel mondo greco e in quello egiziano» spiega la prof.ssa Giorda «C’è sicuramente l’eco dei riti dionisiaci, che al principio del secondo secolo avanti Cristo, attraverso l’Etruria, giunsero fino a Roma. E c’è un lontano profumo del Nilo. Il mondo romano, infatti, festeggiava la dea Iside, cosa che comportava anche la presenza di gruppi mascherati, come attesta lo scrittore Lucio Apuleio nell’undicesimo libro delle Metamorfosi. Presso i Romani la fine del vecchio anno era rappresentata da un uomo coperto di pelli di capra, portato in processione, colpito con bacchette e chiamato Mamurio Veturio. Tutti momenti, compresi i Saturnali, segnati dalla trasgressione sia in campo alimentare che in quello sociale (gli schiavi vivevano come uomini liberi e si comportavano di conseguenza) o in quello sessuale. Si realizzava un temporaneo scioglimento dagli obblighi del convivere civile e dalle gerarchie per lasciar posto al rovesciamento dell’ordine, allo scherzo e anche alla dissolutezza».
Al rovesciamento dell’ordine prestabilito, al rituale di fecondità della terra, come del grembo materno e al periodo dedito al culto dei morti, si lega inoltre l’uso della maschera: essa è simbolo della forza vegetativa della natura, del mondo animale e di quello degli inferi. Rappresentava le anime dei trapassati che, evocati dai riti propiziatori, salivano sulla terra per auspicare un abbondante raccolto. IIl significato più vero del Carnevale (da carnem levare o carnem laxare, nel rito pagano) si situa in uno spazio, entro i cui confini si dimenticano le cure quotidiane e al tempo stesso si esalta il mondo sommerso, dionisiaco, che pullula nei meandri imperscrutabili dell’Es: una specie di autotravestimento per giocare la sfida con se stessi, prima che con l’altro, un gioco da Fregoli per esaltare la parte oscura, che concorre, insieme a quella apollinea, a formare la identità di ciascuno di noi.
Sia in quanto rappresentazione del caos cosmico, sia in quanto drammatizzazione del caos sociale, il Carnevale interagisce fortemente con la sfera spirituale-religiosa, di cui, comunque, suppone l’esistenza. Nel primo caso (il passaggio dal caos al cosmo) è evidente il riferimento all’intervento divino, con cui è necessario rinnovare periodicamente un dialogo fecondo. Nel secondo caso (caos sociale), riconoscere alla festa le funzioni di contestare, sospendendo o addirittura sovvertendo certe norme sociali nonché le autorità che di queste sono garanti, pur arrivando a dar vita a eccessi in campo alimentare e sessuale, s’inscrive tuttavia in un perimetro in cui Stato e Chiesa hanno l’ultima parola, in quanto anche i comportamenti più “osé” sono previsti e confinati in ambiti spazio-temporali decretati dalla tradizione. In ultima analisi – osserva la studiosa – i riti carnascialeschi «servono a ribadire la necessità di un ordine unitario sia pure idealmente nuovo o quanto meno rinnovato che trova la propria legittimazione nelle autorità civili e in quelle religiose». Insomma, semel in anno licet insanire (una volta all’anno è lecito impazzire). E allora, diamo il la alle “trasgressioni” e al divertimento, ma…cum grano salis!
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