di MASSIMO CONSORTI –
Il “doppiosenso” è una forma d’arte e noi italiani ne detenevamo saldamente il primato. In Italia infatti, il doppiosenso ha radici antiche e nobili che trovano origine nelle maschere del teatro romano, si sviluppano con i trovieri e i giullari, si popolarizzano con i cantastorie. Poi c’è la consacrazione del palcoscenico con Ettore Petrolini, e le sue mirabili prese in giro del Duce, e il lungo periodo dell’avanspettacolo in cui, più che rivestire un gioco linguistico politico, i doppisensi si lasciavano andare al pecoreccio. Al cinema il doppiosenso lo introduce Totò che riesce a svariare da quelli politici a quelli sociali con la facilità con cui diciamo “amen”, ma Totò era un genio. Evoluzione logica, la televisione e qui Renzo Arbore la fa da padrone assoluto; non solo ridicolizza il doppiosenso ma, convinto che la gente stia perdendo la facoltà del ragionamento, lo didascalizza, lo annuncia, lo rende palese.
Tutta questa intro per dire che, forse, qualcuno nel mondo si è messo in testa di togliere agli italiani il monopolio del doppiosenso. E non è un monologhista qualsiasi del Caesar Palace di Las Vegas, ma addirittura il Presidente degli Stati Uniti d’America (mano sul cuore, please!).
Mister Don è pericolosissimo, lasciargli uno smartphone in mano mette a dura prova la pace mondiale e soprattutto la pazienza dei suoi avversari. Mister Don ha il pregio di far incazzare tutti come asini sardi, fa fibrillare le persone come se un attacco improvviso d’ira sconvolgesse menti già provate dai suoi discorsi e dalle sue performance in perfetto stile America First, e la fregatura è che tutti quelli del suo staff si comportano esattamente come lui.
Basta, ad esempio, che Kim Jong- un decida di twittare una battuta che lui, the President, deve rispondere sennò si sente male. Persone simili, purtroppo, ne abbiamo conosciute. Sono quelle che vogliono sempre avere ragione al di là del bene e del male, e quando non trovano quelli che sono disposti a dargliela (la ragione, doppiosenso) danno fuori da matti. Ma cosa è successo per aver provocato tanto trumpiano “doppiosensismo” gratuito?
È successo che Kim, dopo aver mangiato il solito mezzo bue appena scottato, non soddisfatto del pasto perché non c’erano le patatite fritte con il ketchup, in preda a un attacco di nervi ha twittato: “Sul mio tavolo c’è sempre il pulsante nucleare”. Apriti cielo! Dall’altra parte dell’Oceano, Mister Don si è sentito punto nel vivo e ferito nell’onore e, come un adolescente di un qualsiasi college americano, ha prontamente risposto: “Anch’io ho sul mio tavolo il pulsante nucleare ed è molto più grosso del tuo e soprattutto funziona”. Oddio, “funziona” è una parola grossa e anche sulle dimensioni si potrebbe discutere, di tutto ciò dovremmo chiedere conferma a Melania, ma siamo personcine per bene e non lo faremmo mai. Il tweet del Presidente ha fatto ovviamente il giro del mondo, accompagnato da foto e commenti salaci, da sfottò e giudizi niente affatto lusinghieri (non sul contenuto quanto sulle dimensioni).
Il dubbio che ci resta, giunti alla fine dell’ennesima bravata di una fonte inesauribile di spunti comici, è se ci è o ci fa. Se il suo avventurismo verbale sia frutto di istinto o di ragione, di parole soppesate (visto il ruolo) o di un pour parler da guitto della campagna texana sempre a cavallo e con gli stivali anche a letto, di notte.
Ma mentre siamo alle prese con un dubbio che più amletico non si può, negli USA esce “Fire and Fury: inside the Trump White House” di Michael Wolff, un libro che è una lunga intervista a Steve Bannon, il suprematista bianco stratega della campagna elettorale di Mister Don. Le prime indiscrezioni sono bombe, si parla di “alto tradimento” mica di pizza e fichi. Ma sul regno di Trump, che ce l’ha più grosso di tutti, il sole scenderà molto lentamente.