Le “Emozioni tra fiori e pietre” di Sabrina Galli, nuovo libro della poetessa sambenedettese

Sabrina Galli

di LORENZO SPURIO*

SAN BENEDETTO DEL TRONTO – La poetica di Sabrina Galli – autrice nata a Busto Arsizio che da decenni vive a  San Benedetto del Tronto  – è fatta di raffinatezze e di aromi quotidiani, di dolci scenari e di amare analisi della cupa società d’oggi. Ricorrono suadenti le immagini naturali dell’ambiente in cui la Nostra vive dominato dal mar Adriatico che lambisce la bella riviera delle Palme. Una poetica onesta e lucente nella quale, se si è portati a bearsi della ricchezza della Natura e si descrive la beltà delle forme, dall’altra parte non è insensibile né cieca verso dinamiche sociali che caratterizzano la società d’oggi quelle che definisce “voci spente nei corpi giacenti” (25). La poetessa, infatti, indossa la voce a difesa di classi disagiate dell’umanità quale le prostitute o i senzatetto affidando pensieri positivi a questi strati sociali costretti a vivere in una società che li sfrutta, che li deride, che ne fa uso e consumo a seconda delle proprie volontà. Sin dalle prime righe il tema nevralgico della memoria dimostra essere importante, tanto da ricorrere nelle varie liriche e legarle un po’ in un unico filo; la poetessa parla della “lanterna dei ricordi” (18) a intendere quel bagliore che, pur impalpabile, è possibile ritrovare per riallacciarsi all’età andata, ai momenti vissuti e ormai distanziatisi da noi a causa del processo di crescita, quelle “memorie/ ammantate dal vivere” (45).

La poetessa, con un verso sempre pulito e scevro da barocchismi o da sincopate forme ermetiche, si premura d’occuparsi di tutto ciò che sta intorno a lei: non solo ciò che, personalmente e nell’intimità, la riguarda in quanto persona ma anche ciò che la chiama in causa in quanto parte di un gruppo sociale. Ecco che parla del “profondo delle tenebre” e della “ulcera dell’odio” (26) per riferirsi, ancor meglio e senza infingimenti, a coloro che sfruttano e mentono: “L’odio che ti muta, che ti spinge/ a schierarti sulla linea esatta/ delle scelte errate degli uomini,/ imposte col potere, imposte da deleteri fanatismi./ E l’uomo diventa carnefice e vittima di sé stesso/ e apre insanabili piaghe negli animi” (26). È vero, s’ha anche da osservare – come in questo caso specifico – la tendenza a rivelare ambiguità umane, casi di sfiducia e di idiosincrasia sociale, vale a dire di denuncia verso realtà pietrificatisi in maniera drammatica per mezzo di un poetare che sembra superare volontà ritmiche e cadenzate per avvicinarsi ben più a un prosimetro. Forma che, nella libertà d’immagine e nella fluidità dell’intercalante verso lungo, permette di ascrivere una realtà fisica, concreta, realmente sperimentata all’interno di una sorta di micro-cosmo che la poesia stessa, quale bomboniera, propone. Attenzione e premura verso i disagi dell’uomo, insofferenza e dispetto nei confronti dell’inadeguatezza del pover uomo di far fronte alla vita di tutti i giorni a causa di inciviltà, barbarismi, grettezze, burocrazie smodate, forme di violenza, corruzione e denigrazione.

La poetessa va rintracciando nell’ambiente, complice le nervature della memoria che è sempre presente e, come un fuoco, è in grado di accendersi velocemente e divampare, quelle che sono le forme di corrispondenza tra sé e il mondo, le risonanze comuni, i sentimenti di condivisione (“Siamo calamite;/ sagome distese/ nel campo magnetico”, scrive nella poesia “Albe accese” , (51) che stonano e minacciano con quell’accesso “divisionismo” (48) e con gli “sterili gesti” (48) di cui si riferisce nella poesia dedicata a Clessidra. Comune sentire d’irrazionale foggia (“euritmica fisarmonica”, 56) che si realizza in quel patto indissolubile tra la poetessa e la natura (“Sono a morire di vita/ nelle corde vocali del mare”, 49) in cui la liquidità del mare diviene mare magnum di liquefazione del corpo che, pure, in altri stati di materia è pulviscolo e inconsistente come l’aria: “Sono qui a lasciare/ che il cielo mi spogli” (49). La natura non solo è amica dell’uomo ma nelle liriche di Sabrina Galli è una sua estensione, in linea con quell’universalismo panteistico descritto da noti filosofi: “Ma il cielo è una spugna/ che assorbe il lamento” (54). Parimenti la condizione dell’uomo è quella di un’entità sottoposta al dominio degli eventi, a un’esistenza regolata in qualche modo predestinatamente: “Sono una pedina/ […]/ di una scacchiera bianca e verde” (54) anche se l’atto volitivo e la necessità di scelta s’impongono come naturali condizioni nel congruo sviluppo psico-fisico del soggetto. L’io lirico, infatti, poco dopo dirà: “Scelgo una direzione./ Mi muovo” (54) divenendo fiero e responsabile padrone di sé e del suo futuro.

La poesia di Sabrina Galli abbraccia vari ambiti e fasi della vita dell’uomo ponendo attenzione sul mondo della memoria, del tempo che cambia, del presente indefinibile, dei sentimenti spesso recalcitranti, della difficoltà di ascoltare anche se stessi, appesantiti dai “prolungati dilemmi del dubbio” (85). Ci sono, però, immagini veramente luminose che gettano fiducia in un domani di felicità e benessere, da intuire in quei “bisbigli/dei domani” (94) quasi dei sussurrii che anticipano in forma latente, un domani di gaudio e completezza interiore. Ed è forse in tali circostanze che “la coperta dell’inconscio/ ricamata da disarmonici respiri” (91) viene rimossa da far risplendere e rendere protagonista unica “l’interminabile area dell’anima” (96) di cui questa poesia pulsa e la poetessa vive edulcorata.

La Nostra non manca neppure di porre attenzione verso il dominio del buio visto da un ipoacustico (nella poesia “Inaccessibile leggerezza”, 47) e di quella componente irrazionale e ingovernabile dell’uomo caratterizzata dalla presenza e dall’attività di “onde cerebrali oniriche/[…]/ che l’inconscio è” (57). Tra le curiose “amenità dei respiri” (50) e gli altrettanto impalpabili “sciami di profumo” (51) diventa importante riconoscere il tema dell’acqua – nelle sue varie forme, derivazioni e significati – come centrale all’interno del lavoro. Essa è presente/assente a seconda delle circostanze in maniera elotiana, quasi a intendere una sovrabbondanza/carenza di istinti vitali, di possibilità di futuro. La poesia “La notte osserva” si apre con una immagine senz’altro archetipica di ciò in quanto la volta celeste, nel suo buio, è ritratta mentre fissa e contempla proprio l’arsura. Un colloquio impari tra la vastità del cielo e la penuria di liquido vitale. Poche pagine dopo, in “Accade”, la Galli parla di un “mare avvilito” (61) metafora della nostra desolazione che porta a insofferenza e ripiegamento. Quel senso di carestia della fluidità, della secchezza e dell’impossibilità di una fertile sviluppo è in qualche modo presente anche nella poesia “Il ‘là’” nella quale si parla di “semi caduti/ da torsoli di sogni” (72) e dei “solchi del tuo volto” (72), linee che immaginiamo scavate in maniera così profonda e netta da far immaginare un campo arso in cui anche l’uomo trova difficoltà a lavorare. Mondo di asperità contraddistinto dall’aridità e dall’arsura che, nei reconditi e arcani cicli di rinascita e splendore (reali, quanto metaforici) vengono felicemente soppiantati dallo sciabordare e fluir delle acque che ripopolano e rinvigoriscono. Perché nel mare è la vita e nell’acqua la speranza di rinascita: “Curerò ogni escoriazione/ con alghe donate dal mare/ E tornerò/ quando il mio corpo sarà/ un colorato mosaico” (89).

*critico letterario, presidente dell’Associazione Culturale Euterpe