di PGC –
“Uomo Razzo” : titolo fuorviante, anche se è quello di un suo storico pezzo e di un video minimalista. Perché non semplicemente Elton John? Oso dirlo da deculturato non appassionato di cinema, da non consumatore abituale, non recensore, non commentatore… Sì, perchè al cinema io sono un optional. Mi ci portano quasi di peso, ma guido buono la macchina, non disturbo, non mi commuovo né mi esalto, non consumo pop-corn… Neanche il titolo chiedo. Stringo i denti e mi addoloro – in silenzio – solo all’inizio, fra i tuoni espansi, gli stridori siderali, gli SWISSCC tempestosi e perforanti dei “trailers”. Poi il film vero lo dimentico subito, non porto rancore anche se è una stupidata. Aspetto il prossimo, che sarà uguale. Ma stavolta son rimasto contento. Anzi, mi sa che ‘sto film ci torno a rivederlo, di nascosto.
Non solo un tuffo nella buona bella musica pop rock ormai classica; non solo una storia chiacchierata e convulsa riavvolta in ordine; non solo un’introspettiva analisi di una società moderna bacchettona cinica e spietata; non solo il rutilante affresco di un mondo esagerato, desiderato e invidiato; non solo un tellurico cimitero di emozioni familiari; non solo paradisi, successi…
C’è tanto d’altro. Forse di questo film sono le prestazioni che io chiamo secondarie, quelle non in evidenza, non volute, non cercate né previste, a far la differenza. Particolari che diventano sostanza, oltre alla scelta misurata, lodevolmente non commerciale, di canzoni stupendamente arrangiate e interpretate. Non gli scontati luccichii, gli abiti strambi, gli occhiali folli, le scarpe con le ali, i travestimenti funambolici. Le immaginabili stranezze del personaggio, i “ridicoli armamentari”.
Sono piuttosto i colpi di genio registico, continui e seminati all’improvviso con naturalezza, inventati con coraggio o incoscienza (come lui bambino sul fondo della piscina con la testa nella palla di vetro da astronauta: Rocket Man / Uomo Razzo, appunto); l’esasperata fedeltà dei particolari “estetici” delle ambientazioni; le ricostruite atmosfere (la british diversa dalla francese, diversa dall’americana…); le crudeli perforazioni dell’animo, le fiammeggianti turbe sessuali, lo slancio nelle droghe, gli infiniti imperdonabili eccessi; e le svolte vitali. Sono radiazioni di poesia.
I particolari: la Jaguar di quel verde strano (scelta tra le sue cento), le regali Rolls Phantom, la mitica Bentley del ’56, e in America la Chevrolet dorata, la Ford Sedan del ’57, la chilometrica Cadillac Eldorado; l’immenso Yamaha ricoperto di moquette azzurra, il modestissimo piano marron verticale (inglese) degli inizi, scordato il giusto e stridulo come quelli di Lubecca di Capossela, ma con i giallastri tasti d’avorio, il VOX coperchio rosso e tastiera nera (sognato da ogni nostro complessetto di provincia); la facciata del Troubadour riesumata anche nella polvere, l’onirica sequenza di lui e del pubblico proprio in quel concerto, sospesi al ralenti in un silenzio irreale alla Mario Brunello; il tumulto di luci e colori nei balli scatenati ipersincronizzati che neanche nei memorabili musical, che ti calamitano nei vortici del rock. (…)
E poi le parole, cioè i testi (sottotitolati) delle canzoni! Autentica letteratura. Forse ce l’eravamo dimenticati, forse non ce n’eravamo accorti, o li davamo per “belli” a prescindere. Sono storie nelle storie, pensieri controvento, paesaggi subliminali, ma con un senso! Non canzonette. Quell’inizio e quella fine: lui nel corridoio della clinica che avanza imperioso al ralenti, incorporato in un demoniaco abito rosso con le ali!
Io per tutto il film sono stato come nella centrifuga di una betoniera, o meglio dentro un carillon verniciato di emozioni mai ripetitive, proprio come quelli de La Gatta Carillon di Sabatino Polce. A un film così è mancato solo un gatto. Chissà Elton, magnetico e imprendibile come un gatto, quanti ne ha avuti, quanti ne ha: non gli serve una collezione, come con occhiali vestiti scarpe ville Rolls e Jaguar, perché i gatti non si collezionano, sono sempre unici.
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