di VITTORIO CAMACCI –
A soli 42 anni, ci ha lasciato Antonio Bucci, il “keniano d’Abruzzo”, uno degli atleti più tenaci e stakanovisti del circuito podistico. Fin dall’età di cinque anni aveva partecipato a centinaia di gare diventando nel corso degli anni forte e muscolare come pochi altri, indubbiamente uno dei migliori maratoneti abruzzesi. Credo fosse insopportabile per lui l’idea di non poter gareggiare per via dello stop imposto dalla grave pandemia che ha colpito il nostro paese. Antonio si è tolto la vita con un colpo di fucile alla tempia in un oliveto nella sua Fossacesia in provincia di Chieti. In tanti faticano a spiegarsi il motivo di tale gesto, ma io che sono suo amico ed ho condiviso con lui fatica e passione, proverò a spiegarvi come si può amare questo sport tanto da non poterne fare a meno. Per tanti anni ho praticato la corsa agonistica e devo confessarvi che essa non è solo solitudine e sofferenza. Oltre ad essere un’ attività all’aria aperta, buona per la salute, è anche piacevole, godibile ed è ottima per ottenere un buon equilibrio psico-fisico.
Chi la pensa diversamente non conosce questa disciplina e mi fa pensare ad una persona a cui piace ammirare l’eleganza ed il portamento di belle donne ma non si è mai rapportato con loro. Certo nella corsa l’impegno e la sofferenza sono parte integrante di questo sport , ma la soddisfazione ed il benessere che deriva da questo esercizio fisico lasciano sempre in bocca un sapore di felicità, allegria ed uno stato di salute migliore di chi passa i giorni sul divano. La corsa insegna anche a soffrire e a conoscere i sacrifici per migliorarsi e trasformare tutto questo in fonte di gioia. Ma la sofferenza resta, la si vive in solitudine, la si può dividere in compagnia correndo insieme, alleviandola, ma la corsa in fondo insegna anche questo: nessuno, nemmeno una madre, un’ amante, il migliore amico può aiutarci nel momento della sofferenza.
É una lezione durissima, ma anche una delle più preziose. Non si può descrivere a parole cosa si prova a correre una maratona, allenandosi per giorni in perfetta solitudine per più di 35 chilometri, a volte anche d’inverno con il vento contro che ti manda gelide folate in faccia. Per via del tempo ho corso anche con il buio. É un’esperienza affascinante, mistica. Il fruscio del vento sugli alberi, gli animali che si muovono nel bosco. Quando la vista risulta minima gli altri sensi sono amplificati e si hanno nuovi stimoli. La maratona è una “brutta bestia” e ti chiede un conto dal 28° chilometro in poi, di colpo il tuo serbatoio di energie si vuota ed arrivano i crampi ai muscoli. Se non ti sei ben allenato la tua corsa diventa come quella di un tacchino all’ingrasso.
Anche io, che mi definisco, non peccando di presunzione, una persona molto determinata che ha acquisito consapevolezza facendo molta esperienza con serietà sufficiente per non abbandonare l’efficienza di corsa acquisita negli anni, ho avuto difficoltà in questa specialità dell’atletica. Mi ha aiutato il fatto che sono cresciuto in un piccolo paesino di montagna, dove ho vissuto l’ultima generazione di bambini senza cellulare in mano. Da piccolo i miei passatempi erano leggere sfide: saltare muri e fossi, correre salite e discese per aiutare mio padre nell’alpeggio, per andare a scuola o in piazza con gli amici. In sostanza non ci sarebbe da raccontare altro, la mia vita da lì in poi è stata sempre così… cercando di scoprire me stesso in tutto dal lavoro allo sport. Invece di cercare scuse ho sempre trovato una strada.
Ammetto di essere stato fortunato ad aver trovato nel mondo del podismo tanta gente come me alla quale mi sono ispirato ed ho sempre pensato che prendendo il meglio di ognuno di loro sarei diventato esperto ed appagato. In sostanza la corsa è diventata per me un vero e proprio stile di vita. Cose che prima mi sembravano difficili ora sono un giochetto da ragazzi e le mie paure si sono trasformate in un punto di forza. Pensavo che questo valesse anche per Antonio. Purtroppo così non è stato semplicemente perché lui amava la corsa molto più di me.
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