di ELIANA NARCISI (ELIANA ENNE) –
Daniele Mencarelli con il romanzo “Tutto chiede salvezza” (Mondadori) è il vincitore della settima edizione del Premio Strega Giovani, promosso dalla Fondazione Maria e Goffredo Bellonci e da Strega Alberti con il contributo della Camera di Commercio di Roma e in collaborazione con BPER Banca. Al secondo e al terzo posto si sono classificati Gianrico Carofiglio con “La misura del tempo” (Einaudi) e Jonathan Bazzi con “Febbre” (Fandango) –
Siamo nel Reparto psichiatrico di un Ospedale civile romano, un martedì di giugno. C’è una camera con sei letti. Ci sono Mario, ex maestro elementare oggi in pensione con problemi di depressione; Gianluca, l’uomo con l’urlo di ragazza, che non sa gestire la rabbia e le sue reazioni sono estremamente violente; Alessandro, che è completamente catatonico; Madonnina, soprannominato così perché non parla con nessuno se non con la Madonna che ogni giorno dice di vedere; Giorgio, un bestione di un metro e novanta con manie autolesioniste. Perché Daniele, un ragazzo di vent’anni che dovrebbe essere felice come accade ai suoi coetanei e che invece già a diciassette ha dichiarato guerra al mondo, finisce invece in un posto così?
Con una prosa scorrevole che alterna espressioni in romanesco a riflessioni esistenziali profondamente dolorose, Daniele Mencarelli racconta i sette giorni di TSO subiti nel 1994 quando una notte, dopo aver assunto stupefacenti e superalcolici, ha devastato la casa dei genitori e provocato un infarto al padre. Uno dei tanti eccessi avuti negli anni, perché da quando ha memoria non ha fatto altro che portare disordine, perché sa compiere gesti che transitano anonimi nella sua vita ma fanno male agli altri. È intelligente, studia all’università e lavora come rappresentante, ma affoga nei pensieri senza riuscire ad averne il controllo e basta un cenno di un cliente, anche il più banale, a mandarlo in tilt. Sono le cose della vita quotidiana a provocargli la sofferenza di chi di anni dovrebbe averne mille e non venti; cose da cui non riesce a tenersi a distanza, perché Daniele è tutto un impulso da seguire, se c’è una vetta la deve raggiungere, se c’è un abisso lo deve toccare. C’è solo una cosa che riesce a dargli pace ed è scrivere poesie. Deve tutto all’intuizione geniale di un’insegnante della terza media se ha scoperto che la scrittura può essere lo strumento giusto per manifestare quello che sente esplodergli dentro.
Un romanzo che è al contempo un grido di dolore e un atto di denuncia contro un sistema che prepara i medici a formulare diagnosi e gli infermieri alla contenzione, alla violenza verbale, alla violenza fisica, ma nessuno all’ascolto. Eppure un pazzo è una persona che ha bisogno di esternare un disagio, un dolore, un rimorso. Tutti pensano di avere le risposte ma nessuno presta attenzione alle domande. Ascoltare è considerato una perdita di tempo e pensare alle cose della vita, al dolore, all’amore, dà fastidio. Oggi non si cura più solamente la malattia mentale, oggi è l’enormità della vita a dare fastidio, il miracolo dell’unicità dell’individuo, mentre la scienza vorrebbe contenere, catalogare. Nessun medico pensa di avere qualcosa da imparare da un malato di mente e invece per Daniele i cinque con cui ha condiviso la stanza durante i sette giorni di TSO sono stati quanto di più simile all’amicizia, alla fratellanza che la vita gli abbia offerto, perché con loro ha potuto essere se stesso, senza sentirsi giudicato o analizzato. Eppure a volte basta veramente poco per evitare una tragedia, un eccesso di rabbia, un gesto inconsulto. Basta ascoltare, guardare negli occhi, concedere. Una volta, una sola volta. E invece non lo fanno. Perché i matti vanno curati, mentre le parole, il dialogo, è merce riservata ai sani.
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